“Il futuro della tecnologia”

Il mio contributo al libro “Se domani il mondo. Visioni d’autore sul futuro”, a cura di Telmo Pievani (Rizzoli, 2024).


Tramite la tecnologia, l’umanità ha trasformato sé stessa e l’intero pianeta. Abbiamo sprigionato, soprattutto dall’inizio della Rivoluzione Industriale in avanti, mezzi tecnici che, costruendo su quanto fatto nei millenni precedenti, hanno mutato praticamente tutti gli aspetti della vita delle persone, hanno rivoluzionato le società e hanno cambiato in profondità lo stesso ambiente naturale, vivente e non vivente, che ci ospita. Due secoli e mezzo allo stesso tempo affascinanti e raccapriccianti, entusiasmanti e disperanti, dalle ferrovie alla penicillina, dalla torre Eiffel a Hiroshima, dall’automobile allo smartphone, per citare qualche esempio emblematico. Per riflettere sul futuro della tecnologia è utile soffermarsi in particolare su tre periodi, che in parte si sovrappongono temporalmente: il Secolo della grande crescita; la Grande Accelerazione; e la Rivoluzione digitale. Il primo periodo va approssimativamente dal 1870 al 1970, un secolo di straordinaria crescita, a cui diedero un contributo determinante le molte e importanti invenzioni realizzate nei decenni a cavallo tra l’800 e il ‘900, come il motore a combustione interna, il telefono, l’aeroplano, la radio e molte altre ancora. È in quel periodo che si mettono le basi per il mondo in cui viviamo oggi e, infatti, sentiamo di avere molto più in comune coi nostri antenati di inizio ‘900, coi loro telefoni, cinema, treni, lampadine e automobili, di quanto loro non avessero con i loro antenati di inizio ‘800, quando tutte quelle tecniche, e molte altre, non erano ancora state inventate. In altre parole, oggi noi sentiamo vicino un Thomas Edison (1847-1931), l’inventore della cinepresa, del fonografo e del microfono, mentre a Edison un Ludwig van Beethoven (1770-1827), benché temporalmente più vicino, sarebbe sembrato appartenere a un’età distante. Dopo il 1970 le cose cambiano. Inizia, almeno tra i Paesi occidentali, quella che molti studiosi chiamano la “stagnazione secolare”, ovvero, un periodo di crescita considerevolmente più ridotta rispetto al periodo precedente, un periodo che continua fino a oggi, nonostante le molte innovazioni di questi ultimi 50 anni, in primis quelle digitali, come Internet e il personal computer. Sono state proposte molte possibili spiegazioni per questo rallentamento, ma in questa sede metteremo in evidenza soprattutto una possibile chiave interpretativa, ovvero, che la stagnazione secolare sia soprattutto la conseguenza della forte deindustrializzazione di Stati Uniti ed Europa (con la conseguente perdita di conoscenze, oltre che di posti di lavoro manufatturieri), della contestuale finanziarizzazione dell’economia e, soprattutto, dell’applicazione dei precetti neoliberisti in sempre più ambiti, inclusa l’Università e la ricerca. Gli ultimi due fattori, in particolare, hanno reso molto più attraente lavorare a innovazioni incrementali, con più elevata probabilità di successo, invece di provare a esplorare direzioni eterodosse, ad alto rischio ma con ritorni potenziali molto elevati. Il secondo periodo storico a cui prestare particolare attenzione, che inizia nell’ultimo tratto del periodo precedente e che continua fino a oggi, è quello della cosiddetta Grande Accelerazione. Con questa espressione si fa riferimento a un periodo di cambiamenti senza precedenti che hanno avuto luogo a causa della presenza umana sul pianeta dalla fine della Seconda Guerra Mondiale a oggi. Per dare qualche numero, in poco più di 70 anni la popolazione mondiale è più che triplicata, passando da poco più di 2 a oltre 8 miliardi di persone. Il numero di veicoli a motore è aumentato di trentacinque volte, da 40 milioni a 1,4 miliardi. Gli abitanti delle città sono quasi sestuplicati, passando da circa 700 milioni a più di quattro miliardi. Ben tre quarti dell’anidride carbonica introdotta nell’atmosfera da attività umane da quando esiste Homo sapiens è stata introdotta dopo il 1945 (e più della metà negli ultimi trent’anni). Nel 1950 veniva prodotto un milione di tonnellate di plastica, ma oggi le tonnellate prodotte sono diventate 400 milioni all’anno – e continuano a crescere. Insomma, nell’arco della durata di una singola vita umana le relazioni tra la nostra specie e la biosfera sono drasticamente mutate, un cambiamento quantitativo che è ormai diventato qualitativo. Così facendo siamo entrati in un periodo storico che molti chiamano Antropocene, perché l’agire umano è diventato il più importante fattore che influenza i cicli geofisici fondamentali alla base del cosiddetto “Sistema Terra”. La Grande Accelerazione, dopo il breve rallentamento durante la pandemia COVID-19, continua inarrestabile anche oggi nonostante le conseguenze sempre più evidenti delle varie forme di inquinamento prodotte dalle attività umane, dalla diffusione delle microplastiche al riscaldamento climatico. Il terzo e ultimo periodo storico su cui concentriamo l’attenzione inizia alla fine del ‘900 e anch’esso continua fino a oggi. Parliamo della Rivoluzione digitale. Negli ultimi anni del XX secolo e nel primo quarto del secolo corrente, infatti, si dispiegano in maniera inequivocabile gli effetti della rivoluzione digitale. È una rivoluzione che prende l’avvio nel 1946, col primo calcolatore elettronico, ma che solo in questi ultimi trent’anni – con la diffusione capillare del personal computer, del Web e, soprattutto, dello smartphone – è diventata macroscopicamente visibile a tutti. Le conseguenze di questa rivoluzione sono innumerevoli e toccano pressoché tutti gli ambiti di attività umana, ma in questo contesto ci limiteremo a mettere in evidenza solo tre aspetti della rivoluzione digitale che ci sembrano particolarmente rilevanti per ragionare sul futuro della tecnologia. Il primo aspetto è che potremmo descrivere quello che sta succedendo da trent’anni a questa parte, con sempre maggior intensità, come un processo di computerizzazione del mondo. Visto il basso costo dell’operazione e visti i potenziali benefici per chi controlla il processo, sempre più oggetti, sempre più macchine, sempre più spazi, sempre più parti della natura, e, soprattutto, sempre più umani vengono dotati di computer in miniatura connessi a Internet. I motivi sono due. Il primo è che, a fronte di un piccolo costo aggiuntivo (che comunque viene quasi sempre fatto pagare, direttamente o indirettamente, alle persone), si produce una delle risorse fondamentali del mondo contemporaneo, ovvero: dati. Il secondo motivo è che la computerizzazione di oggetti, macchine e servizi quasi sempre implica la possibilità del controllo degli oggetti, macchine e servizi e, tramite loro, delle persone che ne fanno uso. In particolare, se è una macchina è definita “smart” (ovvero, è computerizzata con connessione a Internet) significa che, oltre a delle funzionalità più o meno “intelligenti”, la macchina può venir controllata da un’entità esterna (per esempio, chi ha venduto il dispositivo), che ne può modificare il funzionamento, fino ad arrivare all’interdizione completa dell’uso. Dunque, una computerizzazione del mondo che, per come è stata dispiegata, estrae dati e controlla parti sempre più rilevanti di realtà, anche fisica. Il secondo aspetto della rivoluzione digitale su cui vogliamo soffermarci è che ha permesso la nascita delle imprese private tra le più ricche e potenti dall’inizio della Rivoluzione Industriale a oggi, ovvero: Google, Apple, Facebook, Amazon e Microsoft, note come le “Big Tech” (a cui di recente si è aggiunta Nvidia). I loro valori di borsa sono di un ordine di grandezza superiori rispetto a quelli, già enormi, delle principali imprese quotate in Borsa nell’ultimo tratto del XX secolo. Valori che riflettono non solo i profitti spesso elevatissimi delle Big Tech, ma anche e soprattutto la convinzione degli investitori che il futuro sarà dominato da loro ancor più di quanto già non dominino il presente. Queste imprese, infatti, sono le padrone delle infrastrutture digitali (hardware, software e dati) su cui tutto il resto del mondo, essendo ormai diventato digitale, opera, incluse pressoché tutte le altre imprese e pressoché tutti gli apparati statali. Una concentrazione non solo di potere economico, ma anche di vari altri tipi di potere senza precedenti nella storia, sia per dimensione, sia per tipologia. Il terzo e ultimo aspetto della rivoluzione digitale da prendere in considerazione in questa sede discende dal precedente: l’estrema concentrazione di potere digitale ha portato, contrariamente alla narrativa promossa da quelle imprese e dai molti media a loro sensibili, a un rallentamento dell’innovazione in ambito digitale, con effetti, a cascata, anche in altri settori. Se l’epoca d’oro dei primi anni del World Wide Web, da metà anni ’90 ai primi anni di questo secolo, erano stati caratterizzati da un’esplosione di innovazione, che ha portato, oltre al resto, proprio alla nascita di alcune delle “Big Tech”, in primis Google, Amazon e Facebook, gli ultimi vent’anni hanno visto il consolidarsi del loro potere anche grazie a una serie di acquisizioni di imprese che avrebbero potuto rappresentare un pericolo concorrenziale. Centinaia e centinaia di acquisizioni – tra cui quelle celeberrime di YouTube da parte di Google, e di WhatsApp e Instagram da parte di Facebook – mai seriamente ostacolate dalle autorità antitrust USA e dell’Unione Europea, hanno permesso alle “Big Tech” di aumentare il loro potere, riducendo progressivamente gli incentivi a innovare. Lo scenario attuale è questo e tale rimarrà fino a quando l’unico attore in grado di incidere in maniera strutturale, ovvero, il governo degli Stati Uniti, non deciderà di intervenire, ammesso che quel momento mai arrivi, vista la concorrenza – anche e soprattutto geopolitica – con le uniche altre “Big Tech” al mondo, quelle cinesi, ovvero, Tencent, Alibaba, Huawei, Baidu, Weibo, ByteDance e Xiaomi. Dei due secoli e mezzo trascorsi dall’inizio della Rivoluzione Industriale abbiamo messo a fuoco un periodo di grandi innovazioni e di grande crescita, ormai terminato da tempo (almeno in Occidente), e poi due periodi che in parte si sovrappongono e che continuano fino a oggi, la Grande Accelerazione e la Rivoluzione digitale. Alla luce di questa consapevolezza storica proviamo a formulare qualche considerazione utile per ragionare sul futuro della tecnologia. La prima considerazione è che è prudente aspettarsi una traiettoria dell’innovazione irregolare. Oltre alle dinamiche di mercato (abbiamo appena visto come nel digitale la scarsa concorrenza abbia rallentato l’innovazione), a livello più strutturale gli straordinari balzi in avanti della fine del XIX e dell’inizio del XX secolo non sono continuati nel secolo successivo, per lo meno non con lo stesso impatto sulla società e sulla vita delle persone, anche se naturalmente la tecnica ha continuato a progredire producendo risultati straordinari in molti ambiti. Dalla Grande Accelerazione, invece, possiamo trarre una considerazione complementare alla precedente. Perché se da una parte è vero, come abbiamo visto, che l’innovazione non ha più conosciuto una stagione paragonabile a quella dei decenni a cavallo tra ‘800 e ‘900, dall’altra parte dal 1945 in avanti i mezzi tecnici esistenti, comunque in continua evoluzione, e i prodotti della tecnica, ovvero, gli artefatti, si sono moltiplicati esponenzialmente. Potremmo dire che l’umanità ha prelevato prodigiose quantità di atomi dall’ambiente circostante per costruire macchine con le quali produrre entità artificiali (sostanze, oggetti, macchine). Il tutto reso possibile dalla combustione di prodigiose quantità di atomi di tipo speciale, in particolare quelli che costituiscono il carbone, gli idrocarburi e i combustibili nucleari. Oltre a tutti gli altri effetti, la risultante maggior disponibilità di cibo, medicine, biotecnologie, eccetera, ha permesso all’umanità di crescere moltissimo, non solo – come abbiamo già visto – in numero, ma anche in termini di durata della vita media, passata dai 46 anni nel 1950 ai 73 nel 2023. Senza dubbio un eccezionale progresso, che però, per il modo in cui è stata dispiegata la tecnica, sia nei Paesi capitalisti, sia nei Paesi del socialismo reale (fino al 1991), ha anche prodotto, come abbiamo già visto, una profonda alterazione del Sistema Terra, di cui l’inquinamento di terre e oceani, l’estinzione di massa di molte specie viventi e il riscaldamento climatico sono solo le conseguenze principali. È per questo che qualcuno sostiene, semplificando ed estremizzando, che “la tecnologia ha distrutto il pianeta”. Tuttavia, la tecnica non è autonoma: la tecnica è sempre prodotta, usata e indirizzata da forze umane. Guardando al futuro, dunque, è sull’umanità che dobbiamo concentrare la nostra attenzione, non sulla tecnica in quanto tale. Dalla rivoluzione digitale, invece, traiamo la considerazione che da molti anni è in corso un processo di computerizzazione del mondo (a cui ora si aggiungono le nuove tecniche di “intelligenza artificiale”), controllato da una manciata di grandi imprese (a loro volta controllate, o quanto meno influenzate, da un numero molto esiguo di azionisti di controllo, tra cui Blackrock, State Street e Vanguard). Quindi il futuro della tecnologia – che in larga parte dipende, direttamente o indirettamente, dalle tecnologie digitali – sarà necessariamente influenzato dall’elevata concentrazione di potere che caratterizza il digitale. Alla luce di queste considerazioni, come affrontare il futuro della tecnologia? Innanzitutto, dovremmo esercitare cautela in merito al ruolo da attribuire alla tecnologia per la risoluzione dei problemi dell’umanità. Il cosiddetto “tecno-soluzionismo”, ovvero, la fede che ci sia – o che presto ci sarà – una soluzione tecnica per qualsiasi problema individuale, sociale o ambientale, è, appunto, una fede, che non solo in generale attribuisce alla tecnologia un ruolo che non può avere, soprattutto in ambiti che riguardano l’umano e in particolare la vita collettiva, ma che è anche basata sull’aspettativa che lo sviluppo tecnico proseguirà sempre a ritmi vertiginosi. Non è così, per vari motivi, come le oggettive difficoltà (o impossibilità) tecnico-scientifiche che rallentano determinati sviluppi (come, per esempio, la produzione economica e sicura di energia tramite fusione nucleare); la riluttanza delle persone ad accettare determinati sviluppi tecnologici (come dimostrato, per esempio, dalla diffusa ostilità nei confronti dei veicoli a guida autonoma); o ragioni economiche, come per esempio la straordinaria quantità di profitti che si possono ancora fare con i combustibili fossili, riducendo così le risorse a disposizione per sostenere lo sviluppo di fonti di energia alternative. Dobbiamo, quindi, respingere la posizione di chi, di fronte a qualsiasi problema, che si tratti del riscaldamento climatico o delle diseguaglianze sociali, sostiene che non è il caso di preoccuparsi perché di sicuro la tecnologia presto risolverà tutto. Naturalmente la tecnologia può contribuire a risolvere problemi, anche molto importanti, ed è bene esplorare sempre e con forza le possibilità offerte dalla tecnica. Quello che, però, dovremmo archiviare è il dogma che vede nella tecnologia la soluzione di tutti i problemi dell’umanità. Allo stesso tempo, però, e non sembri paradossale, dovremmo rafforzare la cura dell’innovazione, ma in maniera diversa dal recente passato, ovvero, da una parte, tornando a esercitare incisive politiche antitrust (non solo in ambito digitale) e, lato ricerca e sviluppo, liberando le energie creative dei ricercatori, oggi molto spesso soffocate da pressioni di brevissimo termine. È la libera curiosità, sostenuta da adeguate risorse, la miglior incubatrice di scoperte veramente innovative, come la storia della tecnologia dimostra oltre ogni ragionevole dubbio. Va, inoltre, curato lo sviluppo di conoscenze in tutti i settori a prescindere dalla loro apparente “utilità”, non solo perché è bene che la mente umana si eserciti in tutte le direzioni, ma anche e soprattutto perché non abbiamo modo di sapere che cosa risulterà utile in futuro. E infine vanno incoraggiate le ricerche interdisciplinari, tanto auspicate a parole quanto osteggiate nei fatti: è al confine delle discipline, infatti, che storicamente nascono non solo discipline nuove, ma anche molte idee realmente innovative. Riguardo alle tecnologie digitali, che sempre più sostengono, innervano e intermediano il mondo, esse andrebbero radicalmente democratizzate, eliminando i monopoli e favorendo l’apertura, l’interoperabilità, la trasparenza e l’accesso ai dati e alle risorse di calcolo. Andrebbe, inoltre, problematizzato e apertamente discusso il processo di computerizzazione del mondo, che, come tutte le cose umane, non deve essere considerato inevitabile: che cosa rendere “smart” (o “intelligente”, nel senso di “intelligenza artificiale”), quando e come, deve essere una scelta collettiva fatta nell’interesse generale (anche del pianeta), non qualcosa deciso da pochi nell’interesse di pochi. Infine, pensando alla Grande Accelerazione, è necessario e urgente chiedersi come fare a garantire sviluppo sociale e benessere al più grande numero di persone, idealmente tutte, anche per i prossimi decenni (nonostante il riscaldamento climatico e molte altre crisi) utilizzando la tecnica in maniera strutturalmente diversa da come abbiamo fatto finora. In particolare, non è sufficiente riciclare e riusare, e non basta neanche ottimizzare le macchine esistenti affinché consumino e inquinino meno. Si tratta di sviluppi importanti, che vanno ulteriormente estesi e rafforzati, ma assolutamente non sufficienti per correggere in maniera strutturale il rapporto tra specie umana e pianeta. Dobbiamo avere il coraggio di essere più radicali e chiederci – con rigore scientifico e con metodo democratico – se produrre determinati artefatti o meno, in quale forma produrli, quanti produrne, e per quali fini produrli. Tenendo conto, per quanto possibile, della totalità dei loro effetti, ovvero, le loro conseguenze sulle persone, sulla società e sull’ambiente. Per chi scrive, il fine primario della produzione tecnica dovrebbe essere quello di assicurare benessere a quanti più esseri umani possibile, garantendo contemporaneamente il rispetto del pianeta e dei diritti delle generazioni future. Infine, pensando al benessere individuale, dovremmo preoccuparci soprattutto del tempo. L’obiettivo ultimo della tecnologia, infatti, dovrebbe essere quello di permettere alle persone di godere del bene che per noi mortali è il bene supremo: il tempo, appunto. Che la tecnologia – dopo aver ridotto al minimo, o eliminato, pericoli, fatica e alienazione – ci consenta di vivere liberamente la maggior parte possibile della nostra vita. In altre parole, che la tecnologia sia al servizio della vita degli umani nel rispetto della vita del pianeta. Un ideale la cui realizzazione dipenderà grandemente da chi possiederà e controllerà la tecnologia.