"Causa Comune" di Philippe Aigrain - Prefazione

All’inizio del 2006, gli utenti di Internet hanno superato il miliardo. In media, si tratta di utenti molto attivi: tra il 40% e il 60%, infatti, non si limita a consultare le risorse in rete, ma inserisce contenuti online, da poche righe di testo fino a contributi più complessi, come musica, video, novelle, poesie, blog personali e professionali oppure altro genere di materiali. Quando questa attività di inserimento ha luogo con metodologie intensamente collaborative, si producono risultati come Wikipedia, la libera enciclopedia della rete, o come tutti i libri, film e videogame creati da comunità di persone unite da un collante al tempo stesso esile e potente: la passione e la possibilità di accedere a Internet. Nelle zone del mondo in cui sussistono condizioni sociali e infrastrutturali sufficienti, si intravede già l’emergere di un’epoca particolarmente favorevole al dilettante, ovvero a colui che coltiva senza ambizioni professionali una passione, qualunque essa sia. In questo senso, non stupisce che nel 2006, secondo una recente indagine, oltre 32 milioni di americani si autodefinissero “artisti”. Il contenuto “artistico” del fenomeno descritto, insieme tecnologico e sociale, noto come “contenuto generato dagli utenti”, è stato a tal punto compreso nell’ecosistema della rete da diventare il perno per molti esercizi di business. Prima dei contenuti “artistici”, vale però la pena di ricordare che è stato un altro tipo di creazione dell’ingegno ad aprire la strada della produzione dal basso e della condivisione online, ovvero il software. Un risultato spicca fra tutti: lo sviluppo collaborativo di una suite software – GNU/Linux – che, nel giro di pochi anni, è stata in grado di competere, per funzionalità ed eleganza, con prodotti concorrenti sviluppati con processi tradizionali da alcune aziende fra le più dotate di mezzi al mondo. Questo risultato è stato raggiunto grazie al contributo di milioni di persone appartenenti al pool – numericamente sempre più importante – di coloro che hanno competenze di programmazione, ovvero circa quindici milioni di programmatori professionisti e forse cento milioni di persone in grado di effettuare almeno limitati interventi di programmazione. Una frazione considerevole di questo flusso creativo di software e di contenuti, quasi sempre messo a disposizione a titolo gratuito, è stata pubblicata con una modalità che, in anni recenti, ha guadagnato molta attenzione. Molti autori, infatti, hanno rilasciato le proprie opere rinunciando in maniera esplicita alla maggior parte delle prerogative previste dalla legge sul diritto d’autore. In altre parole, invece del tradizionale “tutti i diritti riservati”, hanno scelto di garantirsi soltanto alcuni diritti, inaugurando il passaggio da un sistema basato sulla richiesta, caso per caso ed ex post, del permesso dell’autore, a un sistema in cui il permesso è stato rilasciato ex ante, per tutti e per sempre, purché si rispettino alcune condizioni. Il risultato di questa rivoluzione è stato che milioni di persone hanno contribuito, su base volontaria, a creare un ingente patrimonio comune – un “commons”, per usare il termine inglese – di contenuti e di software a cui possono attingere liberamente cittadini, imprese, associazioni e pubbliche amministrazioni di ogni parte del mondo, oggi e nel futuro. È noto che gli strumenti che regolano tale fenomeno dal punto di vista giuridico sono licenze standardizzate di diritto d’autore, come la GNU General Public License per il software o le licenze Creative Commons per gli altri tipi di opere creative. Si tratta di strumenti la cui presenza nel nostro quadro normativo assume un rilievo fondamentale, ma pur sempre nel dominio tecnico dei mezzi per raggiungere un determinato fine. La vera questione, tuttavia, è perché tale fenomeno abbia così dilagato, quali motivi abbiano spinto milioni di persone a donare il frutto del proprio lavoro. Le spiegazioni che riconducono a motivazioni di profitto (non pecuniario) per chi compie l’atto di donazione, non convincono, poiché adatte a spiegare soltanto un sottoinsieme limitato dei casi. In particolare non tengono conto che il movimento di creazione di beni comuni digitali – reso possibile, sia detto per inciso, da un bene comune infrastrutturale come Internet – è nato negli ambienti degli sviluppatori di software come reazione alla forte spinta verso la sua appropriazione da parte di privati all’inizio degli anni Ottanta del secolo scorso. Come argomenta Philippe Aigrain nel suo lavoro, all’inizio i programmatori, più in grado di comprendere la rivoluzione in atto, in seguito molti semplici utenti di Internet, hanno scelto di aggiungere le proprie creazioni al “commons” digitale come reazione a un rischio importante: veder compromesso il potenziale, ancora largamente inespresso, della rivoluzione informazionale. Una rivoluzione che consiste nell’emergere di «nuovi modi di pensare, di rappresentare, di scambiare, di creare, di memorizzare», e che Aigrain non esita a considerare simile per importanza alla «rottura paleolitica e neolitica determinate dallo strumento, dalla parola e dal segno, e con l’apparizione della scrittura, frattura fondante dei tempi storici». La reazione ha preso la forma della creazione collaborativa – o della difesa, nel caso di infrastrutture – di beni comuni, percepiti come essenziali ai fini di preservare e rafforzare la libertà stessa di creare, usufruire e condividere informazioni. Questi beni comuni, infrastrutturali (una rete aperta e neutrale, piatteforme di calcolo aperte, software di base libero) e informazionali (contenuti), sono al centro dell’analisi e delle proposte di Aigrain. Riguardo ai primi, egli rileva come le piattaforme di calcolo personale poste sotto la diretta e completa sovranità dell’utente (i personal computer) e la presenza di una rete (Internet) fortemente decentralizzata e neutrale rispetto agli usi e alle destinazioni, siano dotazioni solo apparentemente naturali del nostro quotidiano. Al contrario sono il frutto di una serie di decisioni architetturali e di avvenimenti industriali e politici che hanno creato le condizioni economiche ed etiche per il successo della prima fase della rivoluzione informazionale. Queste scelte, infatti, hanno reso possibile la mobilitazione del formidabile capitale distribuito delle competenze, del talento e del tempo messi a disposizione dagli utenti per dare luogo ai movimenti di creazione dal basso sopra ricordati. Le infrastrutture tecnologiche non bastano tuttavia a generare contenuti e sono i contenuti stessi che iniziano a gemmare altri contenuti, attraverso un processo ciclico e continuo di rigenerazione, flusso, apprendimento, scambio culturale e politico reso possibile dalla disponibilità di quella base comune di beni informazionali. Per queste ragioni, secondo Aigrain, la rilevanza sociale dei beni comuni informazionali va riconosciuta a tutti i livelli, dal normativo al politico, con esplicite misure di supporto nei confronti di chiunque contribuisca al loro sviluppo. Intorno a questa centralità dei beni comuni, Aigrain articola una visione più ampia della società che potrebbe emergere dalla rivoluzione informazionale, connaturata da una nuova consapevolezza del ruolo dei beni comuni, anche di quelli sociali e fisici, una società più creativa, solidale e umana. Le proposte concrete di Aigrain sono, per esplicita ammissione dell’autore, imperfette, come tutte le proposte concrete. Collocando nel futuro il raggiungimento «dell’obbiettivo più difficile, costruire il linguaggio e gli strumenti di dibattito su questi problemi, i mezzi per riflettere sull’incomparabile», Aigrain riconosce implicitamente che il suo è un contributo parziale. Tuttavia si tratta di un lavoro di grande importanza, sia per l’ampio respiro – solo in parte reso in questa sede – sia perché fornisce numerosi elementi originali per riflettere sulla trasformazione in atto. Tutto ciò con una conoscenza profonda delle esperienze a livello mondiale, ma al tempo stesso con la consapevolezza di un europeo che vede nuovi modi per trasformare in realtà la visione di un’Europa come “potenza civile”. Juan Carlos De Martin NEXA – Centro di Ricerca su Internet e Società Politecnico di Torino