"Senza futuro. Il ruolo dell’Università"

Pubblico il mio contributo (leggermente rivisto) al rapporto Italia Decide 2023 "La conoscenza nel tempo della complessità. Educazione e formazione nelle democrazie del XXI secolo".

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Senza futuro. Il ruolo dell’Università

Juan Carlos De Martin

“La vita è fatta di correnti che scorrono a velocità diverse: alcune […] mutano di giorno in giorno, altre di anno in anno, altre di secolo in secolo”
Fernand Braudel, “Storia, misura del mondo” (Il Mulino)


Ritornare a pensare ai tempi della storia

Chi pensa a qualunque istituzione, ma in particolare all’Università, dovrebbe riuscire a metterne a fuoco la tessitura storica. Con questa espressione intendo – nel solco di Fernand Braudel – la compresenza delle lunghezze d’onda di tre diversi tempi storici: le lunghezze d’onda corte degli eventi quotidiani, quelli che riempiono le circolari ministeriali e i media; le onde medie, legate ai cambiamenti che si misurano in anni e lustri, come quelli legati alle riforme legislative e ai cicli economici; e infine le onde lunghe, legate alle mutazioni profonde della storia, che hanno il respiro delle generazioni, se non dei secoli.

Chi vuole pensare seriamente a qualsiasi istituzione dovrebbe avere la sensibilità per questa sovrapposizione di tempi storici di diversa natura, sensibilità che oggi è particolarmente importante dal momento che viviamo in un tempo “senza storia”, come l’ha definito Adriano Prosperi.

È importante perché chi presta attenzione solo alle onde corte e forse un po’ alle medie, ovvero chi vive solo nel presente o poco più rischia di rimanere cognitivamente miope. Rischia di reagire – anche se magari con grande abilità – solo alle cose molto vicine, le uniche su cui tende a concentrare l’attenzione. Evita le buche, coglie i frutti, risponde a chi gli si para davanti, riesce a decidere di correre fino in fondo alla via o a saltare determinati ostacoli. Tuttavia, riuscendo solo sporadicamente ad alzare lo sguardo, segue perlopiù un sentiero di cui ha quasi dimenticato l’origine e che non sa più bene dove conduca. Sempre in metafora, non vede bene né le nubi all’orizzonte, né pensa a che cosa ci potrebbe essere oltre alla foresta, o al deserto, che sta attraversando in questo momento. Tutto è nel presente: si ottimizza una qualche funzione di opportunità su un intervallo di tempo che molto spesso si limita all’anno in corso o al massimo a pochi anni nel futuro. Tenere in considerazione intervalli più lunghi non interessa, proprio come ormai da molto tempo non interessa più alla politica e all’economia

È necessario contrastare questo predominio del presente tornando a pensare ai decenni e alle generazioni. Lo sguardo lungo deve tornare a influenzare come pensiamo a qualsiasi attività, a qualsiasi progetto, a qualsiasi istituzione. Solo tornando a pensare sistematicamente ai tempi medi e lunghi potremmo poi tornare ad agire in maniera compatibile col fatto che i viventi sono solo dei garanti di un mondo che hanno ricevuto da chi li ha preceduti e che dovranno trasmettere, possibilmente migliorato, a chi verrà dopo.

Pensare a ciò che è stato e a ciò che si è stati, sforzarsi di leggere la profondità storica del mondo in cui si vive, ovvero, provare a sintonizzarsi sulle onde medie e lunghe della storia, aiuta ad affiancare alla pur indispensabile destrezza con cui si deve affrontare il contingente, la capacità di capire da dove si viene e dove si vuole andare, consapevoli di un contesto di cui le onde lunghe della storia stanno impercettibilmente - ma inesorabilmente e incessantemente - cambiando i connotati.

Quanto abbiamo appena detto vale per tutte le istituzioni, ma vale in modo particolare per l’Università.

Innanzitutto, perché l’Università occidentale ha quasi mille anni di storia; è l’unica istituzione medievale, oltre alla Chiesa, arrivata fino ad oggi. Pensare seriamente all’Università, quindi, richiede la conoscenza delle innumerevoli metamorfosi che l’istituzione ha avuto nel corso dei secoli al mutare del contesto politico, economico, religioso e culturale.

In secondo luogo, perché potremmo dire che la missione dell’Università è per definizione quella di connettere le generazioni passate con le generazioni che devono ancora nascere - “to connect the dead to the unborn”, per usare le parole di Bruce Sterling. Preservare la conoscenza, curarla, interpretarla, insegnarla essendo consapevoli di essere stati preceduti da molte generazioni di studenti, professori, studiosi, bibliotecari, archivisti, tecnici, amministrativi, ecc. Generazioni precedenti a cui essere grati per il patrimonio che si è ricevuto da loro, patrimonio di cui si è ora garanti, con l’obiettivo di trasmetterlo migliorato alle generazioni future.

In terzo luogo, nessuna istituzione ha al suo interno altrettante competenze per poter dipanare la tessitura temporale dell’esistente. Non solo grazie agli storici, per quanto essenziali, ma in linea di principio grazie a tutte le discipline coltivate in Università, perché tutte sono necessarie per comprendere il passato, il presente e le potenzialità del futuro. Questa capacità di lettura della realtà comporta un dovere di mettere questa capacità al servizio della società, oltre che dell’Università stessa.


L’ Università nella Grande Accelerazione

Fatta questa premessa generale, concentriamoci ora su una specifica cesura storica che dovrebbe figurare in maniera prominente in qualsiasi riflessione sul futuro. Facciamo riferimento al 1945, ovvero alla fine della Seconda Guerra Mondiale. Naturalmente tutti sono consapevoli che quell’anno ha rappresentato una discontinuità di grande portata storica, ma al 1945 sono legati tre fenomeni che, sebbene siano indispensabili per pensare al futuro, sono ancora relativamente poco compresi e discussi.

Partiamo dal primo fenomeno. La fine del secondo conflitto mondiale rappresenta non solo l’inizio di un nuovo assetto internazionale, che durerà fino alla dissoluzione dell’URSS, ma anche e soprattutto l’inizio di un periodo storico senza precedenti nella storia dell’umanità. Negli anni immediatamente seguenti al 1945, infatti, inizia quella che numerosi studiosi hanno chiamato la Grande Accelerazione. Con questa espressione si fa riferimento agli enormi cambiamenti che hanno avuto luogo a causa della presenza umana sul pianeta negli ultimi 75 anni. Per dare qualche numero, nell’arco di appena tre generazioni umane, la popolazione mondiale è cresciuta del 350%, passando da circa 2,3 a oltre 8 miliardi di esseri umani. Il numero di veicoli a motore è aumentato da 40 milioni a 1,4 miliardi. Gli abitanti delle città sono passati da circa 700 milioni a 4,4 miliardi. Tre quarti dell’anidride carbonica introdotta nell’atmosfera da attività umane da quando esiste l’umanità è stata introdotta dopo il 1945. Se nel 1950 veniva prodotto un milione di tonnellate di plastica, oggi le tonnellate prodotte sono diventate 400 milioni all’anno, e continuano a crescere. Sempre nello stesso arco di tempo, la quantità di azoto sintetizzato (soprattutto per la produzione di fertilizzanti) è salita da meno di 4 milioni a oltre 123 milioni di tonnellate. Insomma, nell’arco di una singola vita umana ha avuto luogo il periodo storico più anomalo in assoluto dei 200.000 anni di relazioni tra la nostra specie e la biosfera. È un periodo storico che in molti chiamano Antropocene perché l’agire umano è diventato il più importante fattore che influenza tre cruciali cicli biogeochimici, ovvero, il ciclo del carbone, il ciclo dello zolfo e il ciclo dell’azoto. Questi cicli contribuiscono in maniera importante a formare quello che viene chiamato il “Sistema Terra”, un insieme di processi su scala globale connessi tra loro. Ma non si tratta solo di esplosione della produzione di artefatti, di aumento drastico dell’inquinamento o di moltiplicazione della popolazione. La complessità è aumentata anche a livello politico, basti pensare che gli stati internazionalmente riconosciuti sono raddoppiati, da circa cento a circa duecento. E all’interno di molti stati, l’esplosione dei mezzi di comunicazione, anche individuali, oltre a cambiamenti sociali come il passaggio dalla società industriale fordista a una società basata sui servizi, hanno aumentato la complessità sociale portandola a livelli mai riscontrati in precedenza.

Di questa Grande Accelerazione, nei suoi vari aspetti, non abbiamo ancora una consapevolezza sufficiente, probabilmente perché molto recente dal punto di vista storico. A maggior ragione non abbiamo messo bene a fuoco le sue implicazioni, tra cui il fatto che la Grande Accelerazione non potrà assolutamente continuare con le stesse tendenze di questi ultimi quasi 80 anni pena il collasso dell’umanità.

Chi pensa all’Università nel XXI secolo, quindi, non può non mettere al centro della riflessione la Grande Accelerazione: che cosa significa insegnare, fare ricerca, condividere conoscenza alla luce degli straordinari, e per alcuni aspetti sconvolgenti, cambiamenti che sono avvenuti negli ultimi 75 anni e delle loro conseguenze, già in atto o potenziali? Senza una forte consapevolezza che ci troviamo in un momento storico senza precedenti nell’intera storia dell’Università, come possiamo pensare al ruolo degli Atenei nella società? Come possiamo pensare a come educare gli studenti, che vivranno – anzi, che già vivono – in un mondo fortemente modificato dalla Grande Accelerazione? Come identificare i problemi più interessanti a cui rivolgere la nostra curiosità di studiosi se non abbiamo chiaro quello che è successo al pianeta anche solo nell’arco della nostra vita personale? Quali temi proporre per il dialogo coi cittadini, con le istituzioni, con la politica, con le imprese e con le organizzazioni della società civile se non abbiamo una buona comprensione dell’inedito quadro complessivo che si è venuto a creare dal 1945 a oggi?

Per rispondere in maniera convincente a queste domande, però, dobbiamo tener conto, oltre che della Grande Accelerazione, di almeno altri due fenomeni sempre in qualche modo legati alla fine della Seconda Guerra Mondiale. Anche in questo caso di tratta di processi storici con cui a mio avviso l’Università ha fatto solo parzialmente i conti e che, invece, chi vuole pensare al futuro dell’Università dovrebbe includere nelle sue riflessioni.


L’ Università nello sviluppo del sistema democratico

Innanzitutto, in molti Paesi nel secondo dopoguerra si affermano più stabilmente che in precedenza sistemi politici democratici. In Italia dopo il ventennio fascista, la guerra mondiale e la Resistenza, prima si passa dalla monarchia alla Repubblica e poi viene adottata la Costituzione democratica del 1948. La discontinuità è molto forte, ma in quel frangente l’Università italiana reagisce al passaggio alla democrazia in maniera limitata e da allora ha continuato – sia pure con lodevoli eccezioni – a dedicare poca attenzione e ancor meno energie innanzitutto al fatto che la didattica universitaria dovrebbe vedere negli studenti persone e cittadini prima ancora che futuri lavoratori. E anche la ricerca e la cosiddetta terza missione dovrebbero maggiormente tenere in considerazione il fatto che gli Atenei operano in un sistema democratico, di cui sono o dovrebbero essere, a tutti gli effetti, parte integrante. Dal 1948 abbiamo vissuto l’avvento delle istituzioni Repubblicane, i partiti politici di massa, i “Trent’anni gloriosi”, ovvero, il periodo (orientativamente 1945-1975) di grande crescita dei diritti - sia civili, sia sociali – della maggior parte dei cittadini, e poi i Quarant’anni cosiddetti “pietosi” (dal 1980 a oggi), di forte regressione dello Stato sociale e di netta compressione dei diritti, soprattutto sociali, dei lavoratori, con relativo forte aumento delle diseguaglianze. Dal momento che la democrazia non è riducibile alle mere forme di governo, ma richiede molto altro, tra cui istituzioni del sapere indipendenti e cittadini autonomi ed essi stessi democratici nei loro comportamenti e nelle loro aspirazioni, le Università non dovrebbero sentirsi, nei limiti della loro missione (che però è cruciale), attrici tra le principali del sistema democratico? Se la democrazia, inclusa quella Italiana, è in crisi, come si dice ormai da decenni, l’Università non è anch’essa in qualche modo responsabile, anche solo per omissione dei suoi doveri nei confronti della democrazia? Guardando al futuro, che cosa potremmo fare in più e di diverso rispetto al passato?


L’Università nell’evoluzione geopolitica del mondo

Un terzo fenomeno storico da considerare a fianco della Grande accelerazione e della questione della democrazia, è che a partire dal 1945 prende forza il grandioso processo di riequilibrio del mondo. Dopo la guerra, infatti, gli imperi europei, a partire da quello britannico, iniziano a sfaldarsi sotto la pressione di movimenti di emancipazione e di guerre di liberazione. Dopo quattro secoli di dominio europeo, diretto o indiretto, il mondo inizia a riequilibrarsi, sia pure con grandi contraddizioni e con tensioni geopolitiche non di rado acute. In questi ultimi anni il processo di riequilibrio tra aree del mondo sembra aver accelerato, in particolare l’Asia sta tornando a un ruolo proporzionato alla sua popolazione e alla profondità e diversità delle sue civiltà. E oltre all’Asia, anche l’Africa in questi ultimi anni sembra più assertiva nel voler affrancarsi definitivamente dai retaggi coloniali. Guardando a questi sviluppi con gli occhi di un cittadino del mondo non si può non considerarli con favore, o quanto meno come una conseguenza naturale di una realtà irreversibilmente mutata. La popolazione dell’Asia, infatti, è ormai circa il 60% della popolazione mondiale, mentre l’Occidente (ovvero, Europa più anglosfera), che a inizio ‘900 rappresentava ancora il 30% del mondo, oggi è sceso al 13% e si prevede che continuerà a scendere, basta guardare alle proiezioni demografiche di due paesi importanti come Germania e Italia. In parallelo, la somma delle economie asiatiche a parità di potere d’acquisto ha ormai superato la somma delle economie di tutto il resto del mondo, cosa che non capitava dal 1850, ovvero dal periodo delle guerre dell’oppio tra Cina e Gran Bretagna. È naturale, quindi, che l’Asia si proponga come attrattore a livello mondiale, in primis nei confronti dell’Africa, un continente – lo ricordiamo – con una superficie pari a tre volte quella dell’Europa, una popolazione che già oggi è il doppio di quella europea (e prevista in ulteriore, forte crescita), e una ricchissima dotazione di risorse naturali.

A fronte di questa evoluzione di lungo periodo l’Occidente manda a volte segnali di non voler necessariamente dare il benvenuto a un mondo meno sbilanciato, ovvero un mondo tendenzialmente multipolare. Le spese militari, per citare solo un fattore, rimangono fortemente asimmetriche: i paesi del G7, infatti, spendono complessivamente più del quadruplo dei paesi BRICS, Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica (1.447 miliardi di dollari contro 343 miliardi di dollari), nonostante che la loro popolazione sia meno di un quarto di quella dei paesi BRICS. Anche a questo riguardo l’Università dovrebbe migliorare – sia con la didattica, sia con la ricerca – non solo la consapevolezza del processo epocale che ha preso l’avvio con la fine del secondo conflitto mondiale, ma anche lo studio della situazione attuale e dei possibili sviluppi futuri. Sviluppi peraltro inevitabilmente intrecciati con le conseguenze della Grande Accelerazione: a livello internazionale come affrontare, per esempio, l’inquinamento prodotto durante gli ultimi 75 anni (ad esempio l’anidride carbonica immessa nell’atmosfera, in larga parte, dai paesi ricchi occidentali) con quello prodotto oggi e nei prossimi anni (per esempio l’anidride carbonica prodotta in quota crescente da paesi come Cina, India e, in prospettiva, l’Africa)? Come conciliare la giusta ambizione di molti paesi di vivere con uno stile di vita analogo al nostro (anche se auspicabilmente con meno inquinamento e meno sprechi) con la salute del Pianeta su cui tutta l’umanità, presente e futura, deve vivere? La Grande Accelerazione (e tutto ciò che l’ha preceduta) ha beneficiato soprattutto i paesi ricchi, ma con conseguenze negative che hanno toccato tutta l’umanità: che strada seguire nei prossimi decenni, alla luce del ribilanciamento demografico, economico e persino culturale in corso? Dal momento che in passato tentativi di alterare l’equilibrio di potere internazionale (si pensi all’ascesa, alla fine dell’800 e all’inizio del ’900, della Germania in Europa e del Giappone nel Pacifico) hanno prodotto ben due catastrofi mondiali, non è un dovere dell’Università dedicare attenzione e risorse per mettere a fuoco la complessa situazione attuale, identificare i rischi e proporre possibili soluzioni basate sulla Costituzione italiana e sui principi idealmente alla base della convivenza internazionale, a partire dalla Carta delle Nazioni Unite? E riguardo allo specifico caso dell’Italia, l’Università non si dovrebbe dare l’obiettivo esplicito di pensare al futuro dell’Italia – e degli italiani – non solo per avere una democrazia migliore nel nostro Paese, ma anche in un mondo in rapida trasformazione da numerosi punti di vista, sia per le conseguenze della Grande accelerazione, sia delle evoluzioni geopolitiche?

Grande accelerazione, democrazia, riequilibrio del sistema mondo: abbiamo scelto questi temi legati a tempi medio-lunghi della storia perché non sembrano ricevere – nonostante siano cruciali – l’attenzione che meritano da parte delle Università.

Ci sono però due aspetti dell’Università contemporanea che in larga parte spiegano perché i tre temi che abbiamo messo al centro di questo contributo non abbiano finora ricevuto sufficiente attenzione. Affinché la situazione cambi, dunque, occorre incidere su questi due aspetti, che sono la sostanziale incomunicabilità tra le discipline accademiche e l’eccessiva professionalizzazione dell’Università italiana.


Promuovere la cooperazione tra i saperi e le discipline

Innanzitutto, andrebbero fortemente ridotti i fossati che separano le discipline accademiche tra loro. Lo si dice da più di un secolo, ovvero, da quando si sono consolidate le discipline moderne, con le loro società scientifiche, le loro riviste, i loro congressi, i loro campi di potere accademico. Tuttavia, oggi è più urgente che mai non eliminare le discipline, che hanno una loro ragione di esistere, ma fare molto di più per costringerle alla cooperazione e al confronto. I grandi temi dell’essere umano, della società e della natura sono, infatti, intrinsecamente interdisciplinari, quindi i saperi verticali delle discipline (anzi, delle sotto-discipline all’interno delle quali ormai operano quasi tutti gli accademici) non possono per definizione affrontarli in maniera efficace e, men che meno, coglierli nella loro interezza e complessità. È, quindi, fondamentale proteggere esplicitamente, per esempio formulando opportunamente i bandi di concorso e le regole per le abilitazioni e in generale le promozioni, le carriere dei giovani studiosi che abbiano interessi interdisciplinari, giovani che nel contesto accademico attuale vengono invece fortemente penalizzati, con un ulteriore peggioramento - va detto - in anni recenti a causa delle procedure formali di valutazione della ricerca. Inoltre, le Università andrebbero incoraggiate a creare centri interdisciplinari (e, se opportuno, anche inter-ateneo), in modo da dare una casa istituzionale agli studiosi e agli studenti interessati ad affrontare grandi temi grazie all’apporto di diversi tipi di sapere. Sarebbe, inoltre, necessario creare anche in Italia istituzioni che favoriscano esplicitamente le riflessioni interdisciplinari, come gli istituti di studi avanzati sul modello del pionieristico Institute for Advanced Studies di Princeton (sorprendentemente pressoché assenti nel nostro Paese), o istituzioni come il Collège de France, in modo da controbilanciare almeno in parte i silos disciplinari che caratterizzano l’Università contemporanea.


Svolgere il ruolo di protagonista del sistema democratico

Il secondo intervento che sarebbe necessario per affrontare in maniera efficace temi come quelli della Grande accelerazione, della democrazia e del riequilibro del sistema mondo riguarda l’identità stessa dell’Università. L’Università europea, e quella italiana forse ancora di più di quella di altri paesi, si concepisce soprattutto come ente professionalizzante, ovvero, istituzione che prepara nuovi lavoratori. Ma se questo obiettivo fa sicuramente parte della missione dell’Università, non è certamente l’unico e forse neanche il primo. In democrazia, infatti, l’Università dovrebbe avere innanzitutto un ruolo culturale e civile, ovvero, aiutare gli studenti a sviluppare la propria identità in quanto individui e a diventare cittadini autonomi e consapevoli. Ma affinché ciò capiti sul serio, l’Università dovrebbe innanzitutto concepirsi come attore tra i principali del sistema democratico, non mero ente di formazione professionale. In questi ultimi decenni, tuttavia, l’Università ha accettato sempre più passivamente – oltre che una miriade di controlli e di vincoli che stridono col tanto parlare di “autonomia” – di diventare un’erogatrice di servizi, in primis agli studenti diventati clienti e poi al sistema produttivo che non di rado usa l’Università, invece che per ricerche di punta, per prestazioni che in passato avrebbe prevalentemente svolto nei propri laboratori di ricerca e sviluppo. L’Università non si pensa più come istituzione quasi millenaria, in dialogo con gli altri attori sociali, conscia della propria specificità e della propria missione sociale. Anzi, l’Università italiana sembra aver quasi perso il rispetto per sé stessa, anche se gli indicatori principali mostrano senza ombra di dubbio che riesce a fare piuttosto bene, in tutti gli ambiti, nonostante una penuria di risorse scandalosa se confrontata coi principali paesi avanzati.

Come raggiungere i due obiettivi, la promozione dell’interdisciplinarità e un’Università pienamente consapevole del proprio ruolo democratico? Se per il primo sono necessari soprattutto interventi normativi e istituzionali come quelli che abbiamo elencato, per il secondo non è possibile prescrivere alle comunità accademiche come devono autorappresentarsi. Ci sono voluti decenni per arrivare alla situazione attuale, caratterizzata da rassegnazione e da uno sguardo orientato al breve termine, ovvero, quasi solo alla risoluzione di “problemi” (vincoli, obiettivi, indicatori) definiti da altri, e ci vorranno sicuramente molti anni prima che l’Università torni a pensarsi come un corpo, in senso medievale, invece che un insieme di monadi gestite tramite indicatori e algoritmi.

Intanto però forse la strada più promettente per facilitare un cambiamento dell’Università nella direzione auspicata è proprio quella di occuparsi - concretamente: nella didattica, nella ricerca, nella terza missione - dei temi che abbiamo messo al centro di questo contributo, ovvero, la Grande accelerazione, la democrazia, l’ascesa del non-Occidente. Per farlo, infatti, sarebbe necessario superare nei fatti le barriere delle discipline e, inoltre, facendolo, si dimostrerebbe che l’Università si prende cura sia del mondo in cui viviamo, sia del destino delle generazioni future. Forse è proprio questo il modo migliore per facilitare l’avvento di un’Università più all’altezza della società della complessità.

Affinché ciò avvenga, tuttavia, la precondizione è tornare a pensare ai tempi della storia. Non solo le lunghezze d’onda brevi, l’histoire événementielle che oggi assorbe quasi tutte le energie e le attenzioni, ma anche le lunghezze d’onda medie e lunghe. Chi lo può fare, se non l’Università? E quale momento più urgente, se non oggi?