Tecnologia è umanità*
La tecnologia è uno dei determinanti del futuro dell'umanità, allo stesso livello di importanza delle questioni ambientali, geopolitiche, economiche e socio-politiche. E' sufficiente pensare a energia, trasporti, difesa, medicina e digitale per capire che è così.
La tecnologia dovrebbe essere, quindi, incessantemente al centro di una discussione pubblica ampia e approfondita, dalle scuole e università al Parlamento, dai partiti politici ai media. Per identificare bisogni, per stabilire priorità, per favorire la ricerca di soluzioni, per saggiare le conseguenze economiche, sociali e culturali delle varie opzioni, per decidere se, quando e in quale forma mettere in campo una determinata tecnologia, per capire come assicurare tecnologie utili per la collettività. Insomma, per riflettere politicamente sulla tecnologia.
Sarebbe logico che ciò capitasse, soprattutto in democrazia. Tuttavia, salvo sporadiche eccezioni, non capita. Non che si parli poco di tecnologia: se ne parla e anche molto. Ma sono riflessioni in larga parte frammentate in ambiti sconnessi tra loro. Come nella parabola buddista, monaci ciechi toccano un elefante, ma solo la coda, una zampa, una zanna, la proboscide. Nessuno tocca altre parti del corpo dell'elefante e quindi nessuno arriva a capire di avere a che fare con un tutto, con, appunto, un elefante. Quindi sui media si celebra (o critica) l'ultimo modello di smartphone o si paventa - da almeno sessant'anni - la fine del lavoro, i tecnici pensano a rendere più efficienti le tecnologie esistenti a prescindere dalle conseguenze di tale aumento di efficienza, i filosofi si interrogano su quanto la tecnica sia più o meno fuori controllo (o, all'opposto, via per realizzare il paradiso in terra), gli economisti si occupano di come favorire e far fruttare l’”innovazione”, e così via per silos. Silos che tendono a polarizzarsi in “apocalittici” e “integrati”, in entusiasti e pessimisti, ma conservando tutti la tendenza a dare per scontata una premessa fondamentale, ovvero, che la tecnologia in qualche modo capiti. Di conseguenza non si ritiene ci sia un pressante bisogno di riflettere in maniera ampia sulla tecnologia: per gli entusiasti perché tanto ogni evoluzione tecnologica è per definizione un progresso, per i pessimisti perché tanto ormai la tecnica è fuori controllo e “solo un dio ci potrà salvare”. Quindi, perché mai fare la fatica di riflettere sulla tecnologia mettendo insieme saperi differenti? E - soprattutto - perché mai riflettere politicamente sulla tecnologia?
Questa situazione deve cambiare. La tecnologia, infatti, dovrebbe essere considerata come uno dei temi cruciali della vita collettiva. Dopo tutto senza tecnologia non esisteremmo; anzi, l'homo sapiens stesso senza tecnologia si sarebbe immediatamente estinto.
Forse la chiave per andare nella direzione giusta sta nel far comprendere che la tecnologia è un prodotto squisitamente umano. O, rovesciando la prospettiva, che l'uomo è intrinsecamente tecnologico; non solo tecnologico (per fortuna!), ma certamente anche tecnologico.
E che quindi la tecnologia non capita. La tecnologia non è natura, non nasce spontaneamente. La tecnologia esiste solo ed esclusivamente perché degli esseri umani l'hanno immaginata, voluta, progettata, realizzata, finanziata, diffusa, raccontata, accettata, criticata, usata, modificata. Parafrasando Federico Caffè, potremmo dire che tutta la tecnologia è riconducibile ad attori con "nome, cognome e soprannome".
Quindi, in quanto umana la tecnologia è cultura e immaginazione, espressione di valori e di visioni del mondo, desiderio di contribuire alla collettività con qualcosa di utile e magari di esteticamente gradevole, estensione del nostro corpo e dei nostri sensi, sostegno alle nostre facoltà, mezzo per vivere meglio, per prendersi cura della collettività e del pianeta.
Ma proprio perché umana la tecnologia è anche simultaneamente potere, strumento di sfruttamento e di dominio, mezzo per depredare il pianeta, arma contro animali e piante, nonché strumento per controllare o distruggere altri esseri umani o addirittura intere civiltà.
Insomma, la tecnologia è profondamente umana, con tutte le potenzialità positive e negative dell'umanità, con tutte le sue esplosive contraddizioni.
Sul piano della comprensione, quindi, abbiamo bisogno di una fortissima collaborazione tra saperi diversi, arti incluse, per capire in maniera ampia la tecnologia, ovvero, l’opposto della frammentazione e dell’incomunicabilità che quasi sempre domina la scena oggi.
Ma la tecnologia è umana anche in un altro senso, ovvero, che in quanto prodotto umano è – in linea di principio – assolutamente plasmabile dagli esseri umani stessi. Contrariamente a ciò che pensano sia entusiasti, sia pessimisti, non esiste alcun determinismo, né in positivo, né in negativo. Ma se la tecnologia è controllabile dagli esseri umani allora a monte del discorso sulla tecnologia c'è il discorso sul come vorremmo vivere insieme. Del tipo di società a cui vorremmo dare vita, della sua struttura interna, del suo rapporto col pianeta. E' dal tipo di società che riusciremo a realizzare, infatti, che dipenderà se avremo tecnologie più o meno al servizio della collettività, più o meno rispettose dell'ambiente e di altre collettività umane, più o meno al servizio dei più deboli, più o meno sensibili a decisioni democratiche.
E’ essenziale, però, che fin dall’inizio di questa riflessione filosofica e politica si pensi alla tecnologia in modo nuovo: non più mero insieme di strumenti dall’efficacia variabile, ma componente immanente dell’umanità. Tecnologia è umanità.
Juan Carlos De Martin è professore ordinario al Politecnico di Torino, faculty associate all'Università di Harvard e co-curatore, con Luca De Biase, di Biennale Tecnologia. Il Prof. De Martin sta scrivendo un libro dal titolo provvisorio: "Dieci lezioni sulla tecnologia".
* Testo dell’intervento di Juan Carlos De Martin durante l'inaugurazione della prima edizione di Biennale Tecnologia (Torino, 12.11.2020). Una versione leggermente modificata è stata pubblicata dalla rivista “Left”, 13.11.2020, pp. 60-62.
La tecnologia dovrebbe essere, quindi, incessantemente al centro di una discussione pubblica ampia e approfondita, dalle scuole e università al Parlamento, dai partiti politici ai media. Per identificare bisogni, per stabilire priorità, per favorire la ricerca di soluzioni, per saggiare le conseguenze economiche, sociali e culturali delle varie opzioni, per decidere se, quando e in quale forma mettere in campo una determinata tecnologia, per capire come assicurare tecnologie utili per la collettività. Insomma, per riflettere politicamente sulla tecnologia.
Sarebbe logico che ciò capitasse, soprattutto in democrazia. Tuttavia, salvo sporadiche eccezioni, non capita. Non che si parli poco di tecnologia: se ne parla e anche molto. Ma sono riflessioni in larga parte frammentate in ambiti sconnessi tra loro. Come nella parabola buddista, monaci ciechi toccano un elefante, ma solo la coda, una zampa, una zanna, la proboscide. Nessuno tocca altre parti del corpo dell'elefante e quindi nessuno arriva a capire di avere a che fare con un tutto, con, appunto, un elefante. Quindi sui media si celebra (o critica) l'ultimo modello di smartphone o si paventa - da almeno sessant'anni - la fine del lavoro, i tecnici pensano a rendere più efficienti le tecnologie esistenti a prescindere dalle conseguenze di tale aumento di efficienza, i filosofi si interrogano su quanto la tecnica sia più o meno fuori controllo (o, all'opposto, via per realizzare il paradiso in terra), gli economisti si occupano di come favorire e far fruttare l’”innovazione”, e così via per silos. Silos che tendono a polarizzarsi in “apocalittici” e “integrati”, in entusiasti e pessimisti, ma conservando tutti la tendenza a dare per scontata una premessa fondamentale, ovvero, che la tecnologia in qualche modo capiti. Di conseguenza non si ritiene ci sia un pressante bisogno di riflettere in maniera ampia sulla tecnologia: per gli entusiasti perché tanto ogni evoluzione tecnologica è per definizione un progresso, per i pessimisti perché tanto ormai la tecnica è fuori controllo e “solo un dio ci potrà salvare”. Quindi, perché mai fare la fatica di riflettere sulla tecnologia mettendo insieme saperi differenti? E - soprattutto - perché mai riflettere politicamente sulla tecnologia?
Questa situazione deve cambiare. La tecnologia, infatti, dovrebbe essere considerata come uno dei temi cruciali della vita collettiva. Dopo tutto senza tecnologia non esisteremmo; anzi, l'homo sapiens stesso senza tecnologia si sarebbe immediatamente estinto.
Forse la chiave per andare nella direzione giusta sta nel far comprendere che la tecnologia è un prodotto squisitamente umano. O, rovesciando la prospettiva, che l'uomo è intrinsecamente tecnologico; non solo tecnologico (per fortuna!), ma certamente anche tecnologico.
E che quindi la tecnologia non capita. La tecnologia non è natura, non nasce spontaneamente. La tecnologia esiste solo ed esclusivamente perché degli esseri umani l'hanno immaginata, voluta, progettata, realizzata, finanziata, diffusa, raccontata, accettata, criticata, usata, modificata. Parafrasando Federico Caffè, potremmo dire che tutta la tecnologia è riconducibile ad attori con "nome, cognome e soprannome".
Quindi, in quanto umana la tecnologia è cultura e immaginazione, espressione di valori e di visioni del mondo, desiderio di contribuire alla collettività con qualcosa di utile e magari di esteticamente gradevole, estensione del nostro corpo e dei nostri sensi, sostegno alle nostre facoltà, mezzo per vivere meglio, per prendersi cura della collettività e del pianeta.
Ma proprio perché umana la tecnologia è anche simultaneamente potere, strumento di sfruttamento e di dominio, mezzo per depredare il pianeta, arma contro animali e piante, nonché strumento per controllare o distruggere altri esseri umani o addirittura intere civiltà.
Insomma, la tecnologia è profondamente umana, con tutte le potenzialità positive e negative dell'umanità, con tutte le sue esplosive contraddizioni.
Sul piano della comprensione, quindi, abbiamo bisogno di una fortissima collaborazione tra saperi diversi, arti incluse, per capire in maniera ampia la tecnologia, ovvero, l’opposto della frammentazione e dell’incomunicabilità che quasi sempre domina la scena oggi.
Ma la tecnologia è umana anche in un altro senso, ovvero, che in quanto prodotto umano è – in linea di principio – assolutamente plasmabile dagli esseri umani stessi. Contrariamente a ciò che pensano sia entusiasti, sia pessimisti, non esiste alcun determinismo, né in positivo, né in negativo. Ma se la tecnologia è controllabile dagli esseri umani allora a monte del discorso sulla tecnologia c'è il discorso sul come vorremmo vivere insieme. Del tipo di società a cui vorremmo dare vita, della sua struttura interna, del suo rapporto col pianeta. E' dal tipo di società che riusciremo a realizzare, infatti, che dipenderà se avremo tecnologie più o meno al servizio della collettività, più o meno rispettose dell'ambiente e di altre collettività umane, più o meno al servizio dei più deboli, più o meno sensibili a decisioni democratiche.
E’ essenziale, però, che fin dall’inizio di questa riflessione filosofica e politica si pensi alla tecnologia in modo nuovo: non più mero insieme di strumenti dall’efficacia variabile, ma componente immanente dell’umanità. Tecnologia è umanità.
Juan Carlos De Martin è professore ordinario al Politecnico di Torino, faculty associate all'Università di Harvard e co-curatore, con Luca De Biase, di Biennale Tecnologia. Il Prof. De Martin sta scrivendo un libro dal titolo provvisorio: "Dieci lezioni sulla tecnologia".
* Testo dell’intervento di Juan Carlos De Martin durante l'inaugurazione della prima edizione di Biennale Tecnologia (Torino, 12.11.2020). Una versione leggermente modificata è stata pubblicata dalla rivista “Left”, 13.11.2020, pp. 60-62.