Su tecnologia e istruzione
Ci interroghiamo sul rapporto tra tecnologia e istruzione da almeno 2,400 anni, ovvero, dal dialogo tra Socrate e Fedro sulla scrittura. Ma anche restando agli ultimi 150 anni è impressionante la mole di proposte e di esperimenti riguardanti l'uso della tecnologia (in particolare pellicola, radio e televisione) nella scuola.
Tuttavia, benché spesso annunciata, la rivoluzione educativa per via tecnologica non si è mai materializzata.
Che cosa lo ha impedito? Perché le classi di oggi sono, nella loro essenza, simili a quella di un secolo fa? Cosa ha bloccato, - ripetutamente e in tutto il mondo - lo sforzo di generazioni di 'creatori distruttivi' armati di tecnologia?
A ostacolare sul serio la rivoluzione non è stata né la resistenza corporativa degli insegnanti, né il conservatorismo di molti genitori, né l'incapacità dei Ministri di capire il nuovo che avanza. Più banalmente finora ogni nuova tecnologia si è dimostrata complessivamente inadatta a rimpiazzare il rapporto docente-studenti. Un rapporto che include la capacità di motivare ogni studente singolarmente, di capire da un viso sciupato l'esistenza di problemi extra-scolastici, di dedurre da un sguardo sperso la necessità di spiegare di nuovo e tutte le altre situazioni che si creano quando un numero limitato di esseri umani condivide uno spazio fisico per imparare insieme.
E' dunque corretto concludere che la tecnologia non avrà mai posto nelle classi? Ovviamente no.
Innanzitutto perché in questi decenni la tecnologia si è comunque conquistata un ruolo educativo significativo, basti pensare all'uso della televisione da parte dell'Open University britannica (e non solo), alle lavagne multimediali o ai documentari. Ma soprattutto perché non è possibile predire il futuro: ogni nuova tecnologia andrà valutata senza pregiudizi, soppensando vantaggi e svantaggi, come raccomandava di fare, nel già citato "Fedro" di Platone, il faraone Thamus.
Ciò vale anche per l'ondata tecnologica digitale. Anche questa ondata produce, come le precedenti, i suoi rivoluzionari, persone che - spesso ignare della storia - sembrano genuinamente stupite che le classi somiglino ancora a quelle di cento anni fa.
Ricordiamo allora i fondamentali.
Innanzitutto, la tecnologia è un mezzo e non un fine. In altre parole è razionale adottare una tecnologia solo se permette di raggiungere meglio determinati obiettivi educativi. Ciò richiede analisi costi-benefici basate su dati empirici: gli slogan non bastano.
In secondo luogo, dopo oltre due secoli di esperimenti educativi, il modello tradizionale impostato su docente e studenti in presenza fisica deve essere trattato con rispetto. Non perché tale modello sia perfetto (non lo è) o perché non sia possibile pensare ad alternative (ne sono state sperimentate miriadi), ma perché tale modello ha dato ragionevole prova di sé con centinaia di milioni (miliardi?) di studenti e milioni di insegnanti, nell'arco di numerose generazioni e in contesti sociali, economici e politici molto diversi tra loro. Non è poco.
Di conseguenza, è razionale concentrarsi, più che su scenari rivoluzionari, sui punti deboli del sistema attuale, per capire - con la fondamentale collaborazione dei docenti - se il digitale può offrire strumenti per affrontarli.
In tal senso, due aspetti mi sembrano particolarmente promettenti: efficacia e inclusione.
Efficacia perché ci sono argomenti che potrebbero essere affrontati con migliori risultati se alla parola venissero affiancati nuovi strumenti basati (anche) sulle immagini. In maniera limitata si fa già da decenni con i video educativi, ma il digitale - grazie a grafici interattivi, simulazioni, video giochi, ecc. - potrebbe rappresentare, con opportuni investimenti (che però non dovrebbero andare a scapito di aspetti che la ricerca ha identificato come più importanti, tra cui l'adeguatezza delle aule, la numerosità delle classi o la preparazione degli insegnanti), un importante salto di qualità rispetto al passato.
Inclusione perché il digitale facilita (divario digitale permettendo) il coinvolgimento di coloro che fanno difficoltà - per motivi di salute, di lavoro o geografici - a frequentare un'aula. In parte la televisione lo fa già da 40 anni, ma il digitale può farlo in maniera più capillare, più flessibile e, soprattutto, più interattiva. Il beneficio sociale di questa sola dimensione potrebbe già essere enorme.
Ma c'è anche un secondo relativo all'inclusione: grazie alla Rete, infatti, è ora più facile trovare modi diversi di presentare un argomento, spesso anche con media diversi (testi, video, audio, grafici, fumetti). In questo modo aumenta la probabilità che lo studente riesca a trovare - da solo, in contatto con suoi pari o con l'aiuto di un docente - una versione particolarmente adatta al suo modo di imparare. Così potrebbe sia aumentare la qualità dell'apprendimento, sia diminuire il numero di studenti - non pochi - che, scoraggiati dall'approccio tradizionale, finiscono col perdersi per strada.
Rivoluzione, dunque? Non credo. Ma c'è di sicuro il potenziale per evoluzioni importanti: si tratta di pensarle e poi di sperimentarle con pazienza e rigore. Non è poco.
Articolo apparso originariamente su "La Stampa" del 3 maggio 2014, Speciale Salone del Libro, p. VI.
A ostacolare sul serio la rivoluzione non è stata né la resistenza corporativa degli insegnanti, né il conservatorismo di molti genitori, né l'incapacità dei Ministri di capire il nuovo che avanza. Più banalmente finora ogni nuova tecnologia si è dimostrata complessivamente inadatta a rimpiazzare il rapporto docente-studenti. Un rapporto che include la capacità di motivare ogni studente singolarmente, di capire da un viso sciupato l'esistenza di problemi extra-scolastici, di dedurre da un sguardo sperso la necessità di spiegare di nuovo e tutte le altre situazioni che si creano quando un numero limitato di esseri umani condivide uno spazio fisico per imparare insieme.
E' dunque corretto concludere che la tecnologia non avrà mai posto nelle classi? Ovviamente no.
Innanzitutto perché in questi decenni la tecnologia si è comunque conquistata un ruolo educativo significativo, basti pensare all'uso della televisione da parte dell'Open University britannica (e non solo), alle lavagne multimediali o ai documentari. Ma soprattutto perché non è possibile predire il futuro: ogni nuova tecnologia andrà valutata senza pregiudizi, soppensando vantaggi e svantaggi, come raccomandava di fare, nel già citato "Fedro" di Platone, il faraone Thamus.
Ciò vale anche per l'ondata tecnologica digitale. Anche questa ondata produce, come le precedenti, i suoi rivoluzionari, persone che - spesso ignare della storia - sembrano genuinamente stupite che le classi somiglino ancora a quelle di cento anni fa.
Ricordiamo allora i fondamentali.
Innanzitutto, la tecnologia è un mezzo e non un fine. In altre parole è razionale adottare una tecnologia solo se permette di raggiungere meglio determinati obiettivi educativi. Ciò richiede analisi costi-benefici basate su dati empirici: gli slogan non bastano.
In secondo luogo, dopo oltre due secoli di esperimenti educativi, il modello tradizionale impostato su docente e studenti in presenza fisica deve essere trattato con rispetto. Non perché tale modello sia perfetto (non lo è) o perché non sia possibile pensare ad alternative (ne sono state sperimentate miriadi), ma perché tale modello ha dato ragionevole prova di sé con centinaia di milioni (miliardi?) di studenti e milioni di insegnanti, nell'arco di numerose generazioni e in contesti sociali, economici e politici molto diversi tra loro. Non è poco.
Di conseguenza, è razionale concentrarsi, più che su scenari rivoluzionari, sui punti deboli del sistema attuale, per capire - con la fondamentale collaborazione dei docenti - se il digitale può offrire strumenti per affrontarli.
In tal senso, due aspetti mi sembrano particolarmente promettenti: efficacia e inclusione.
Efficacia perché ci sono argomenti che potrebbero essere affrontati con migliori risultati se alla parola venissero affiancati nuovi strumenti basati (anche) sulle immagini. In maniera limitata si fa già da decenni con i video educativi, ma il digitale - grazie a grafici interattivi, simulazioni, video giochi, ecc. - potrebbe rappresentare, con opportuni investimenti (che però non dovrebbero andare a scapito di aspetti che la ricerca ha identificato come più importanti, tra cui l'adeguatezza delle aule, la numerosità delle classi o la preparazione degli insegnanti), un importante salto di qualità rispetto al passato.
Inclusione perché il digitale facilita (divario digitale permettendo) il coinvolgimento di coloro che fanno difficoltà - per motivi di salute, di lavoro o geografici - a frequentare un'aula. In parte la televisione lo fa già da 40 anni, ma il digitale può farlo in maniera più capillare, più flessibile e, soprattutto, più interattiva. Il beneficio sociale di questa sola dimensione potrebbe già essere enorme.
Ma c'è anche un secondo relativo all'inclusione: grazie alla Rete, infatti, è ora più facile trovare modi diversi di presentare un argomento, spesso anche con media diversi (testi, video, audio, grafici, fumetti). In questo modo aumenta la probabilità che lo studente riesca a trovare - da solo, in contatto con suoi pari o con l'aiuto di un docente - una versione particolarmente adatta al suo modo di imparare. Così potrebbe sia aumentare la qualità dell'apprendimento, sia diminuire il numero di studenti - non pochi - che, scoraggiati dall'approccio tradizionale, finiscono col perdersi per strada.
Rivoluzione, dunque? Non credo. Ma c'è di sicuro il potenziale per evoluzioni importanti: si tratta di pensarle e poi di sperimentarle con pazienza e rigore. Non è poco.
Articolo apparso originariamente su "La Stampa" del 3 maggio 2014, Speciale Salone del Libro, p. VI.