Costruiamo le alternative
Articolo pubblicato da "La Stampa", 18 aprile 2024, p. 24 in occasione dell'inaugurazione di Biennale Tecnologia 2024
L’immaginazione è morta. Può sembrare un’esagerazione, e in parte è anche vero, ma ogni tanto è utile, e forse addirittura necessario esagerare; basta, come diceva Günther Anders, che l’esagerazione vada nella direzione della verità.
L’esagerazione in questo caso è utile per provare a intaccare il sarcofago della rassegnazione che si forma pressoché inevitabilmente quando la nostra capacità di immaginare futuri realmente alternativi si atrofizza.
È quello che è successo in Occidente in questi ultimi decenni, caratterizzati dal dogma del “non c’è alternativa” (sottointeso, al presente). Che si tratti di un dogma è ormai chiaro a tutti, ma è un dogma che si è sempre presentato come il risultato di un’analisi tanto spietata quanto incontrovertibile della realtà. Analisi che prescrive medicine, quasi sempre amare, da imporre a cittadini che, se per caso obiettano, è solo perché sono ignoranti o egoisti, o tutte e due le cose insieme. Se le medicine producono – nonostante progressi tecnologici raccontati come imponenti – precarietà, disoccupazione, scuole e sanità sempre più fragili, povertà crescente, ecc., ci si dice dispiaciuti, ma tutte le medicine hanno controindicazioni, e quindi bisogna continuare a somministrarle, anzi, la dose, se possibile, va aumentata.
In questi ultimi tempi, poi, circola una versione del dogma persino peggiore della precedente, e non di poco, ovvero: «Fino a oggi siete stati dei privilegiati: da adesso in avanti non c’è alternativa al peggioramento». Peggioramento tipicamente dovuto a un futuro di guerre e di violenze dato per inevitabile (e a volte, sembrerebbe, quasi auspicato), o, in altra direzione, alle conseguenze apocalittiche dovute al riscaldamento del pianeta.
Di fronte a prospettive plumbee di questo genere, come non cedere, soprattutto se si è giovani, alla rassegnazione, o addirittura alla disperazione? E in effetti sono anni che gli studi e i sondaggi ci restituiscono un quadro molto preoccupante dello stato mentale e, più in generale, dello stato d’animo delle popolazione dei paesi occidentali. La depressione affligge milioni di persone, l’uso di psicofarmaci è diventato molto comune e, se interrogati in merito al futuro, la maggioranza dei cittadini europei e statunitensi risponde che negli anni a venire si aspetta di vivere peggio o, nelle migliori delle ipotesi, di restare nelle spesso tristi condizioni attuali. Non stupisce che in molti paesi i tassi di natalità siano da suicidio collettivo.
Così non è possibile continuare.
E il fattore da cui partire per provare a cambiare direzione è proprio l’immaginazione. Un fattore di per sé non sufficiente, si capisce, ma assolutamente necessario per dare linfa a un modo diverso di stare al mondo, un modo di vivere allenato a vedere nel mondo soprattutto delle possibilità.
L’umanità ha sempre immaginato, ovvero si è rappresentata mentalmente qualcosa che non esisteva, ma che, grazie all’azione umana, aveva il potenziale di esistere. Immaginare qualsiasi cosa: una selce scheggiata, un’organizzazione sociale, una app, un possibile esperimento scientifico, un pozzo, un’opera d’arte. Secondo alcuni l’immaginazione è la caratteristica principale che distingue la nostra specie da tutti gli altri essere viventi: che ciò sia vero o meno, è sempre stata l’immaginazione a spingerci a provare, a sperimentare, a trovare nuove vie, a non darci mai per vinti. È sempre stata l’immaginazione a nutrire la speranza, ovvero, a permetterci di guardare il futuro con la consapevolezza del possibile, di ciò che in questo momento non è, ma che potrebbe essere.
Tuttavia, al contrario di quanto è stato fatto in questi ultimi quarant’anni, l’immaginazione va non solo rispettata, ma anche attivamente incoraggiata e nutrita, nella società in generale e in particolare nelle scuole e nelle università. La comprensione rigorosa profonda del passato e dell’esistente coltivata nelle istituzioni del sapere, infatti, deve essere pensata non come fine a sé stessa, ma anche e soprattutto come terreno su cui far crescere rigogliosa la pianta dell’immaginazione.
Ecco perché l’edizione 2024 di Biennale Tecnologia, la manifestazione culturale del Politecnico di Torino, si intitola Utopie realiste. Abbiamo scelto la parola “utopie” per invitare a liberarci dal dogma del fintamente inevitabile per tornare finalmente a pensare, con audacia, futuri possibili. E poi a “utopie” abbiamo aggiunto “realiste” per far capire che non ci interessano i piani impossibili, le chimere, ma – in spirito politecnico – i futuri che poggiano sia su rigorose basi tecnico-scientifiche, sia su una solida conoscenza dell’umano.
È questo il tipo di immaginazione che praticheremo a Torino fino a domenica, grazie a più di 120 lezioni, dialoghi e discussioni con relatrici e relatori di tutto il mondo, a spettacoli teatrali, a mostre, a laboratori per i bambini, a programmi per le scuole, a presentazioni del personale di ricerca e docente del Politecnico, a visite nei laboratori dell’Ateneo.
Un grande palinsesto culturale e artistico che graviterà innanzitutto sulle due sedi principali del Politecnico, ovvero, il complesso di corso Duca degli Abruzzi e il Castello del Valentino, ma che includerà tutta la città, partendo dalle Officine grandi riparazioni (Ogr) per arrivare a piazza San Carlo (dove sarà possibile incontrare i team studenteschi del Politecnico) alle biblioteche civiche, alle Case di quartiere e alle decine di sedi dove avranno luogo gli incontri di Biennale Tecnologia Off.
Per concludere, l’immaginazione forse non è morta, ma di sicuro, come abbiamo detto, non sta molto bene. Tuttavia, possiamo farla tornare in salute e il primo passo è ricominciare a praticarla, tutti insieme. Con i piedi ben saldi per terra, ma leggeri, pronti a saltare. E con gli occhi spesso puntati alle stelle. È quello che proveremo a fare a Biennale Tecnologia. Vi aspettiamo.
L’immaginazione è morta. Può sembrare un’esagerazione, e in parte è anche vero, ma ogni tanto è utile, e forse addirittura necessario esagerare; basta, come diceva Günther Anders, che l’esagerazione vada nella direzione della verità.
L’esagerazione in questo caso è utile per provare a intaccare il sarcofago della rassegnazione che si forma pressoché inevitabilmente quando la nostra capacità di immaginare futuri realmente alternativi si atrofizza.
È quello che è successo in Occidente in questi ultimi decenni, caratterizzati dal dogma del “non c’è alternativa” (sottointeso, al presente). Che si tratti di un dogma è ormai chiaro a tutti, ma è un dogma che si è sempre presentato come il risultato di un’analisi tanto spietata quanto incontrovertibile della realtà. Analisi che prescrive medicine, quasi sempre amare, da imporre a cittadini che, se per caso obiettano, è solo perché sono ignoranti o egoisti, o tutte e due le cose insieme. Se le medicine producono – nonostante progressi tecnologici raccontati come imponenti – precarietà, disoccupazione, scuole e sanità sempre più fragili, povertà crescente, ecc., ci si dice dispiaciuti, ma tutte le medicine hanno controindicazioni, e quindi bisogna continuare a somministrarle, anzi, la dose, se possibile, va aumentata.
In questi ultimi tempi, poi, circola una versione del dogma persino peggiore della precedente, e non di poco, ovvero: «Fino a oggi siete stati dei privilegiati: da adesso in avanti non c’è alternativa al peggioramento». Peggioramento tipicamente dovuto a un futuro di guerre e di violenze dato per inevitabile (e a volte, sembrerebbe, quasi auspicato), o, in altra direzione, alle conseguenze apocalittiche dovute al riscaldamento del pianeta.
Di fronte a prospettive plumbee di questo genere, come non cedere, soprattutto se si è giovani, alla rassegnazione, o addirittura alla disperazione? E in effetti sono anni che gli studi e i sondaggi ci restituiscono un quadro molto preoccupante dello stato mentale e, più in generale, dello stato d’animo delle popolazione dei paesi occidentali. La depressione affligge milioni di persone, l’uso di psicofarmaci è diventato molto comune e, se interrogati in merito al futuro, la maggioranza dei cittadini europei e statunitensi risponde che negli anni a venire si aspetta di vivere peggio o, nelle migliori delle ipotesi, di restare nelle spesso tristi condizioni attuali. Non stupisce che in molti paesi i tassi di natalità siano da suicidio collettivo.
Così non è possibile continuare.
E il fattore da cui partire per provare a cambiare direzione è proprio l’immaginazione. Un fattore di per sé non sufficiente, si capisce, ma assolutamente necessario per dare linfa a un modo diverso di stare al mondo, un modo di vivere allenato a vedere nel mondo soprattutto delle possibilità.
L’umanità ha sempre immaginato, ovvero si è rappresentata mentalmente qualcosa che non esisteva, ma che, grazie all’azione umana, aveva il potenziale di esistere. Immaginare qualsiasi cosa: una selce scheggiata, un’organizzazione sociale, una app, un possibile esperimento scientifico, un pozzo, un’opera d’arte. Secondo alcuni l’immaginazione è la caratteristica principale che distingue la nostra specie da tutti gli altri essere viventi: che ciò sia vero o meno, è sempre stata l’immaginazione a spingerci a provare, a sperimentare, a trovare nuove vie, a non darci mai per vinti. È sempre stata l’immaginazione a nutrire la speranza, ovvero, a permetterci di guardare il futuro con la consapevolezza del possibile, di ciò che in questo momento non è, ma che potrebbe essere.
Tuttavia, al contrario di quanto è stato fatto in questi ultimi quarant’anni, l’immaginazione va non solo rispettata, ma anche attivamente incoraggiata e nutrita, nella società in generale e in particolare nelle scuole e nelle università. La comprensione rigorosa profonda del passato e dell’esistente coltivata nelle istituzioni del sapere, infatti, deve essere pensata non come fine a sé stessa, ma anche e soprattutto come terreno su cui far crescere rigogliosa la pianta dell’immaginazione.
Ecco perché l’edizione 2024 di Biennale Tecnologia, la manifestazione culturale del Politecnico di Torino, si intitola Utopie realiste. Abbiamo scelto la parola “utopie” per invitare a liberarci dal dogma del fintamente inevitabile per tornare finalmente a pensare, con audacia, futuri possibili. E poi a “utopie” abbiamo aggiunto “realiste” per far capire che non ci interessano i piani impossibili, le chimere, ma – in spirito politecnico – i futuri che poggiano sia su rigorose basi tecnico-scientifiche, sia su una solida conoscenza dell’umano.
È questo il tipo di immaginazione che praticheremo a Torino fino a domenica, grazie a più di 120 lezioni, dialoghi e discussioni con relatrici e relatori di tutto il mondo, a spettacoli teatrali, a mostre, a laboratori per i bambini, a programmi per le scuole, a presentazioni del personale di ricerca e docente del Politecnico, a visite nei laboratori dell’Ateneo.
Un grande palinsesto culturale e artistico che graviterà innanzitutto sulle due sedi principali del Politecnico, ovvero, il complesso di corso Duca degli Abruzzi e il Castello del Valentino, ma che includerà tutta la città, partendo dalle Officine grandi riparazioni (Ogr) per arrivare a piazza San Carlo (dove sarà possibile incontrare i team studenteschi del Politecnico) alle biblioteche civiche, alle Case di quartiere e alle decine di sedi dove avranno luogo gli incontri di Biennale Tecnologia Off.
Per concludere, l’immaginazione forse non è morta, ma di sicuro, come abbiamo detto, non sta molto bene. Tuttavia, possiamo farla tornare in salute e il primo passo è ricominciare a praticarla, tutti insieme. Con i piedi ben saldi per terra, ma leggeri, pronti a saltare. E con gli occhi spesso puntati alle stelle. È quello che proveremo a fare a Biennale Tecnologia. Vi aspettiamo.
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