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La necessità di capire tempi difficili

Articolo originariamente apparso su "Corriere Torino" del 5 giugno 2021 (pp. 1 e 5).

Cercare di capire un avvenimento storico complesso mentre quest’ultimo è ancora in corso è un’impresa tanto folle quanto necessaria. Folle perché una comprensione ben fondata si inizia a solidificare solo a distanza di anni, se non di decenni; la ricerca – medica, storica, economica, sociologica, ecc. – ha i suoi tempi, infatti, che non possono essere forzati. Allo stesso tempo, però, cercare di capire un uragano ad uragano ancora in corso è impresa necessaria: sia i singoli, sia le collettività, infatti, hanno un enorme bisogno di capire e di orientarsi: che cosa sta succedendo? Quanto durerà? Che cosa dobbiamo fare nell’immediato? Come proteggere i più deboli? Quali lezioni trarre per il futuro? Anche se si è consapevoli che molti aspetti del fenomeno sono ancora sconosciuti, è inevitabile provare ad articolare qualche prima risposta.

Nel caso di una pandemia, come COVID-19, tutto questo è vero al massimo grado. Rispetto ad altre emergenze, infatti, come per esempio terremoti o uragani, le pandemie sono fenomeni che oltre ad essere temporalmente molto più dilatati (si misurano in anni, come stiamo purtroppo imparando), sono anche decisamente più complessi, un intreccio di elementi naturali, sociali, politici, psicologici, tecnologici, economici e persino culturali. Un po’ folle sperare di orientarsi in tempo reale, ma allo stesso tempo anche assolutamente necessario. E’ quello che ha provato a fare il Politecnico con l’iniziativa “Tempi difficili”, una serie di undici incontri che ha debuttato il 13 marzo scorso e che si conclude oggi alle 16 con un dibattito, coordinato da Luca De Biase, che coinvolgerà il Ministro Enrico Giovannini, l’economista Elena Granaglia e il coordinatore del Forum Diseguaglianze e Diversità Fabrizio Barca.

Con “Tempi difficili” il Politecnico ha offerto in primis ai suoi studenti e poi a tutti gli interessati l’occasione per concentrarsi – al di là del clamore della quotidianità – su quello che stiamo vivendo. E l’ha fatto chiamando non solo alcuni tra i massimi esperti di pandemie e vaccini come Paolo Vineis e Rino Rappuoli, ma anche una giornalista come Anna Masera, che ha ricostruito il primo anno di pandemia, un esperto di geopolitica e di complessità come Pier Luigi Fagan che ci ha fatto capire in quale congiuntura storica e sociale sia esplosa la COVID-19, uno storico delle pandemie come Guido Alfani, una grande esperta di sanità pubblica come Nerina Dirindin, uno studioso di digitale e società come il sottoscritto che ha provato ad analizzare la grande migrazione online provocata dal coronavirus, un noto economista come Cristiano Antonelli che ha analizzato lo stato dell’economia dopo un anno di crisi e un filosofo come Enrico Donaggio, che ha aiutato a mettere a fuoco i concetti più adatti per pensare alla pandemia.

Un percorso interdisciplinare, arricchito da suggerimenti per ulteriori approfondimenti e liberamente fruibile online, che ha riscosso un notevole successo anche al di fuori della comunità accademica del Politecnico: sono, infatti, già più di ventiquattromila gli spettatori, in diretta o in differita, di “Tempi difficili”. La conferma che, nonostante la follia dell’impresa, era comunque opportuno, anzi, necessario, provare a dare un senso ai nostri pensieri, ai nostri sacrifici, alle nostre azioni. Naturalmente molto resta ancora da approfondire e da capire, e da questo punto di vista potrebbe davvero valer la pena, magari unendo le forze coi colleghi dell’Università di Torino, organizzare “Tempi difficili 2”, ma intanto il Politecnico – sentendo una responsabilità civile oltre che educativa – ha provato a dare un primo contributo.


Articolo originariamente apparso su "Corriere Torino" del 5 giugno 2021 (pp. 1 e 5).

Missione: social media responsabili

Testo originariamente apparso su "La Stampa" del 13 gennaio 2021 (pp. 22-23 dell'edizione cartacea e questa pagina del sito del quotidiano).

Inevitabilmente - e giustamente - si discute della rimozione dai social media di quello che per qualche giorno è ancora il Presidente degli Stati Uniti, ovvero, l'uomo più potente del mondo. Ma la discussione, pur doverosa, non deve farci perdere di vista il problema complessivo. In altre parole, al di là del singolo albero della rimozione di Trump, come è fatta la foresta?

La foresta, ovvero, la situazione attuale dei social media, è costituita da poche, enormi imprese private che, offrendo piattaforme semplici da usare e di elevate prestazioni, hanno creato i più grandi spazi di comunicazione della storia dell'umanità.

In proposito, il primo punto fondamentale da capire è che la natura privata delle piattaforme non esclude affatto la possibilità di regolarne i comportamenti. Così come, per esempio, un ristorante non può rifiutare di servire una persona a seconda del genere o del colore della pelle (e di esempi analoghi ne potremmo elencare molti altri), analogamente le piattaforme possono essere soggette a norme specifiche, come la “Legge per migliorare l'applicazione della legge sui social network” tedesca del 2017 o le recentissime proposte europee, "Digital Services Act" e "Digital Market Act".

Il secondo punto da tenere ben presente è che, contrariamente a quello che si sente dire spesso in queste ore, negli spazi online delle piattaforme non passa qualsiasi cosa. Da anni, infatti, le imprese di 'social media' hanno creato al loro interno complesse macchine di moderazione dei contenuti, che usano sia algoritmi, sia moltissimi lavoratori umani con l'obiettivo di offrire agli utenti ciò che si suppone essi vogliano trovare, in modo che passino il più tempo possibile sulle piattaforme stesse. Quindi tendenzialmente no, per esempio, alla pornografia e anche, in alcuni casi, a immagini di donne che allattano o persino a celeberrime opere d'arte che ritraggono il corpo umano in modo esplicito. Col tempo le proibizioni si sono estese - a volte per iniziativa delle piattaforme, a volte per pressione esterna - e quindi no, per esempio, anche a contenuti legati al terrorismo e alle persecuzioni etniche. Infine di recente l'attenzione si è concentrata sulle assai controverse categorie delle "notizie false" e dell'"odio online".

Infine, il terzo punto è che a questa moderazione dei contenuti effettuata da attori privati si affianca - e non potrebbe essere altrimenti - la legge dello Stato, che proibisce la diffamazione, l'incitazione alla violenza, il procurato allarme e altri reati. Ci si può legittimamente interrogare su come rendere più incisivo e veloce il braccio della Giustizia, ma la legge online c'è e si sente, come dimostrano le ormai molte sentenze per reati commessi online.

Chiariti questi punti chiave, i principali pronblemi che vedo sono tre.

Il primo problema è la mancanza di trasparenza. Ogni mese le piattaforme bloccano, escludono, cancellano, rendono poco visibili milioni di utenti, pagine, gruppi, ecc., ma nessuno - a parte loro - ha un quadro completo di queste iniziative: chi è stato bloccato o oscurato? Per quali motivi? Per quanto tempo? Con quali effetti? Più in generale, quali sono di preciso le loro regole di moderazione? Non si sa.

Il secondo problema è la mancanza di "accountability". A chi rispondono le piattaforme per loro scelte, grandi e piccole? E' accettabile che le piattaforme, oltre ad applicare regole spesso opache e variabili, tendenzialmente ancora non garantiscano a tutti gli utenti modalità rapide, eque e trasparenti per appellare le loro decisioni, indipendentemente dal fatto che riguardino Donald Trump o il Sig. Mario Rossi?

Infine, il terzo problema, inesorabilmente legato ai primi due: l'estrema concentrazione di potere (economico, civile, politico) delle piattaforme. Un pugno di uomini residenti negli Stati Uniti prende decisioni - non di rado opportunistiche - che riguardano la sfera comunicativa di miliardi di persone. Giuste o sbagliate che siano le loro decisioni, ci va bene così? La concentrazione tra l'altro implica l'assenza di alternative: se non piacciono i "termini di servizio" di Facebook o Twitter, infatti, l'unica alternativa è "scegliere" di rimanere esclusi dai luoghi dove buona parte dell'umanità si informa e si confronta.

Che cosa fare? A mio avviso occorre procedere simultaneamente in due direzioni.

La prima è ridurre radicalmente la concentrazione di potere del mondo digitale, come si sta discutendo - anche se ancora abbastanza timidamente - sia in Europa, sia negli USA, contemplando anche opzioni pubbliche, come fece l'Europa dopo il nazismo e il fascismo con l'istituzione di robuste televisioni pubbliche. Concentrazione di potere che, lo diciamo di passaggio, ha impatto non solo sul mondo della comunicazione, ma anche su quali applicazioni possiamo installare (Apple e Google), a chi fornire servizi cloud (Amazon e pochi altri) e se elaborare o meno pagamenti verso determinate persone o entità (Visa e Mastercard).

La seconda direzione è pretendere fin da subito, se necessario per legge, che le piattaforme rispettino alcuni sacrosanti principi di trasparenza e 'accountability', come per esempio i Principi di Santa Clara del 2019. In attesa della riduzione della concentrazione, intanto almeno si ridurrebbe il livello di opacità e di arbitrarietà di spazi che ormai – piaccia o non piaccia – sono un'infrastruttura essenziale delle nostre democrazie.

Testo originariamente apparso su "La Stampa" del 13 gennaio 2021 (pp. 22-23 dell'edizione cartacea e questa pagina del sito del quotidiano).

Tecnologia è umanità*

La tecnologia è uno dei determinanti del futuro dell'umanità, allo stesso livello di importanza delle questioni ambientali, geopolitiche, economiche e socio-politiche. E' sufficiente pensare a energia, trasporti, difesa, medicina e digitale per capire che è così.

La tecnologia dovrebbe essere, quindi, incessantemente al centro di una discussione pubblica ampia e approfondita, dalle scuole e università al Parlamento, dai partiti politici ai media. Per identificare bisogni, per stabilire priorità, per favorire la ricerca di soluzioni, per saggiare le conseguenze economiche, sociali e culturali delle varie opzioni, per decidere se, quando e in quale forma mettere in campo una determinata tecnologia, per capire come assicurare tecnologie utili per la collettività. Insomma, per riflettere politicamente sulla tecnologia.

Sarebbe logico che ciò capitasse, soprattutto in democrazia. Tuttavia, salvo sporadiche eccezioni, non capita. Non che si parli poco di tecnologia: se ne parla e anche molto. Ma sono riflessioni in larga parte frammentate in ambiti sconnessi tra loro. Come nella parabola buddista, monaci ciechi toccano un elefante, ma solo la coda, una zampa, una zanna, la proboscide. Nessuno tocca altre parti del corpo dell'elefante e quindi nessuno arriva a capire di avere a che fare con un tutto, con, appunto, un elefante. Quindi sui media si celebra (o critica) l'ultimo modello di smartphone o si paventa - da almeno sessant'anni - la fine del lavoro, i tecnici pensano a rendere più efficienti le tecnologie esistenti a prescindere dalle conseguenze di tale aumento di efficienza, i filosofi si interrogano su quanto la tecnica sia più o meno fuori controllo (o, all'opposto, via per realizzare il paradiso in terra), gli economisti si occupano di come favorire e far fruttare l’”innovazione”, e così via per silos. Silos che tendono a polarizzarsi in “apocalittici” e “integrati”, in entusiasti e pessimisti, ma conservando tutti la tendenza a dare per scontata una premessa fondamentale, ovvero, che la tecnologia in qualche modo capiti. Di conseguenza non si ritiene ci sia un pressante bisogno di riflettere in maniera ampia sulla tecnologia: per gli entusiasti perché tanto ogni evoluzione tecnologica è per definizione un progresso, per i pessimisti perché tanto ormai la tecnica è fuori controllo e “solo un dio ci potrà salvare”. Quindi, perché mai fare la fatica di riflettere sulla tecnologia mettendo insieme saperi differenti? E - soprattutto - perché mai riflettere politicamente sulla tecnologia?

Questa situazione deve cambiare. La tecnologia, infatti, dovrebbe essere considerata come uno dei temi cruciali della vita collettiva. Dopo tutto senza tecnologia non esisteremmo; anzi, l'homo sapiens stesso senza tecnologia si sarebbe immediatamente estinto.

Forse la chiave per andare nella direzione giusta sta nel far comprendere che la tecnologia è un prodotto squisitamente umano. O, rovesciando la prospettiva, che l'uomo è intrinsecamente tecnologico; non solo tecnologico (per fortuna!), ma certamente anche tecnologico.

E che quindi la tecnologia non capita. La tecnologia non è natura, non nasce spontaneamente. La tecnologia esiste solo ed esclusivamente perché degli esseri umani l'hanno immaginata, voluta, progettata, realizzata, finanziata, diffusa, raccontata, accettata, criticata, usata, modificata. Parafrasando Federico Caffè, potremmo dire che tutta la tecnologia è riconducibile ad attori con "nome, cognome e soprannome".

Quindi, in quanto umana la tecnologia è cultura e immaginazione, espressione di valori e di visioni del mondo, desiderio di contribuire alla collettività con qualcosa di utile e magari di esteticamente gradevole, estensione del nostro corpo e dei nostri sensi, sostegno alle nostre facoltà, mezzo per vivere meglio, per prendersi cura della collettività e del pianeta.

Ma proprio perché umana la tecnologia è anche simultaneamente potere, strumento di sfruttamento e di dominio, mezzo per depredare il pianeta, arma contro animali e piante, nonché strumento per controllare o distruggere altri esseri umani o addirittura intere civiltà.

Insomma, la tecnologia è profondamente umana, con tutte le potenzialità positive e negative dell'umanità, con tutte le sue esplosive contraddizioni.

Sul piano della comprensione, quindi, abbiamo bisogno di una fortissima collaborazione tra saperi diversi, arti incluse, per capire in maniera ampia la tecnologia, ovvero, l’opposto della frammentazione e dell’incomunicabilità che quasi sempre domina la scena oggi.

Ma la tecnologia è umana anche in un altro senso, ovvero, che in quanto prodotto umano è – in linea di principio – assolutamente plasmabile dagli esseri umani stessi. Contrariamente a ciò che pensano sia entusiasti, sia pessimisti, non esiste alcun determinismo, né in positivo, né in negativo. Ma se la tecnologia è controllabile dagli esseri umani allora a monte del discorso sulla tecnologia c'è il discorso sul come vorremmo vivere insieme. Del tipo di società a cui vorremmo dare vita, della sua struttura interna, del suo rapporto col pianeta. E' dal tipo di società che riusciremo a realizzare, infatti, che dipenderà se avremo tecnologie più o meno al servizio della collettività, più o meno rispettose dell'ambiente e di altre collettività umane, più o meno al servizio dei più deboli, più o meno sensibili a decisioni democratiche.

E’ essenziale, però, che fin dall’inizio di questa riflessione filosofica e politica si pensi alla tecnologia in modo nuovo: non più mero insieme di strumenti dall’efficacia variabile, ma componente immanente dell’umanità. Tecnologia è umanità.

Juan Carlos De Martin è professore ordinario al Politecnico di Torino, faculty associate all'Università di Harvard e co-curatore, con Luca De Biase, di Biennale Tecnologia. Il Prof. De Martin sta scrivendo un libro dal titolo provvisorio: "Dieci lezioni sulla tecnologia".

* Testo dell’intervento di Juan Carlos De Martin durante l'inaugurazione della prima edizione di Biennale Tecnologia (Torino, 12.11.2020). Una versione leggermente modificata è stata pubblicata dalla rivista “Left”, 13.11.2020, pp. 60-62.

Editoriale "La Stampa": Quale università dopo la pandemia?

Come sarà l'Università del futuro? La domanda inizia a circolare, e non solo in ambito accademico, come è giusto che sia. La tragedia che stiamo vivendo, infatti, è un evento di portata storica, che probabilmente modificherà molte cose in profondità. E' quindi doveroso iniziare a interrogarsi su quali possano essere gli scenari futuri, non solo per aiutare le Università a prepararsi per tempo, ma anche per provare a influire direttamente sugli sviluppi, in modo da salvaguardare - e se possibile rafforzare - il ruolo sociale degli Atenei.

Quella che si profila all'orizzonte è una crisi economica probabilmente più grave di quella del 2008, forse addirittura paragonabile a quella del '29. Anche nel caso - auspicabile - che si riesca ad evitare uno scenario così fosco, è comunque ragionevole ipotizzare che molte cose cambieranno e non solo in ambito economico. Esattamente quali saranno i cambiamenti naturalmente non lo sa ancora nessuno, si possono solo fare degli scenari. Come in tutte le crisi, infatti, ci saranno - anzi, sono già iniziate - scontri e negoziati, anche feroci, per dare forma al futuro, scontri e negoziati il cui esito è ancora molto aperto.

E' però possibile dare per ragionevolmente probabili alcuni sviluppi, tra cui i seguenti:

  • le catene di produzione si accorceranno sensibilmente;
  • si identificheranno beni e servizi ritenuti essenziali, che torneranno ad essere assicurati a livello nazionale (o addirittura locale);
  • i mercati interni aumenteranno di importanza, riducendo l'enfasi posta (soprattutto in Europa) sulle esportazioni;
  • in Italia torneremo a investire nella sanità pubblica, che comunque cambierà a valle della terribile prova che sta sostenendo;
  • anche il Welfare cambierà, sia nell'immediato, sia a regime;
  • gli spostamenti internazionali di persone si ridurranno sensibilmente, per cui crescerà di importanza - psicologica oltre che materiale - la dimensione nazionale;
  • il "grande gioco" internazionale tra aree geopolitiche aumenterà di intensità;
  • il ruolo dello Stato in molti settori, inclusa l'economia, crescerà, anche non sappiamo ancora né con quale intensità, né con quali modalità.

Riguardo al mondo dell'istruzione è evidente che il grande esperimento forzato di insegnamento online di queste settimane lascerà tracce importanti anche dopo l'emergenza. Ciò è positivo a patto che nel dare forma al futuro si faccia tesoro degli studi di questi ultimi dieci anni che hanno dimostrato l'importanza del rapporto interpersonale tra docente e studente per assicurare buoni livelli di successo educativo. Un digitale, quindi, non sostitutivo (se non in emergenza), ma - salvaguardata la salute - utile strumento a disposizione dei docenti per aumentare ulteriormente l'efficacia della loro azione in presenza.

A parte il digitale e focalizzandoci sulle Università, se gli scenari sopra tratteggiati si realizzeranno anche solo in parte si profila un'Università che, pur rimanendo ben connessa con la comunità internazionale, diventa più attenta di quanto non fosse già in passato alle priorità nazionali. In particolare vorrei portare l'attenzione sulla assai probabile (e auspicabile) decisione di far crescere il mercato interno per compensare la diminuzione delle esportazioni. Se ciò effettivamente capitasse, tale cambiamento potrebbe rappresentare, oltre al resto, un'opportunità non solo per recuperare quella porzione della base manufatturiera che abbiamo perso negli ultimi 20 anni, ma anche per alzare il livello tecnologico e organizzativo medio del tessuto produttivo italiano. In tal caso le Università svolgerebbero un ruolo essenziale non solo perché fornirebbero i laureati necessari per realizzare tale salto di qualità, ma anche perché, se sostenute da politiche adeguate, potrebbero contribuire direttamente intensificando le collaborazioni con le imprese.

In ogni caso le Università non devono solo seguire gli sviluppi e prepararsi di conseguenza, ma anche contribuire direttamente a dare forma al mondo che sta nascendo da questa crisi partecipando alle discussioni, realizzando studi, prospettando soluzioni creative alle sfide di questa crisi senza precedenti. Lo devono fare sforzandosi di rappresentare gli interessi della maggioranza degli italiani e con l'obiettivo di creare le condizioni per aumentare ulteriormente il loro contributo al benessere culturale, materiale e civile della collettività.

(commento apparso in forma leggermente ridotta su "La Stampa", 11 aprile 2020, col titolo: "La ripartenza passa dalle università").

E' online il sito del libro "Università futura"

Ieri è andato online il mini-sito dedicato al mio libro "Università futura - tra democrazia e bit". Se potete, il libro continuate a comprarlo (anche in ebook), così sosterrete un editore - Codice Edizioni - che da anni sta facendo molto, con perizia e coraggio, per diffondere la cultura scientifica in Italia. Se invece non potete comprarlo o volete prima sfogliarlo (o farlo sfogliare a un amico), dal sito potete scaricare il PDF del libro. Il libro, in tutte le sue forme, è rilasciato con licenza Creative Commons Attribuzione-Non Commerciale-Condividi allo stesso modo.

Editoriale: "Una riforma per gli onesti"

Una riforma per gli onesti

Juan Carlos De Martin

La Repubblica, p. 1, 27 settembre 2017

Nel pieno di uno scandalo come quello di Firenze, riguardante docenti universitari di diritto tributario, non è facile scrivere nulla che non sia un attacco puro e semplice alla corruzione in ambito universitario. Da un certo punto di vista è inevitabile e forse anche doveroso. Tuttavia la riflessione pubblica non può limitarsi all'ennesima geremiade sull'ennesimo scandalo.

Occorre innanzitutto chiedersi come mai le presunte panacee di questi ultimi otto anni non abbiano funzionato, dalla riforma Gelmini (approvata nel 2010 a colpi di fiducia), riforma che avrebbe dovuto scardinare il potere dei "baroni" e che invece ha verticalizzato il potere nelle università, agli algoritmi e alle "misure oggettive" dell'Agenzia nazionale di valutazione del sistema universitario e della ricerca (ANVUR), che avrebbero - secondo le promesse - dovuto creare un paradiso di meritocrazia in terra e che, invece, a quanto pare hanno solo modificato le modalità della corruzione, non la sostanza. E' evidente che un intero approccio, basato sull'accentramento del potere e su una montagna di regole e formalismi, ha mancato il bersaglio e andrebbe ripensato da zero.

Ma bisogna anche avere il coraggio, anche in un momento come questo di forte indignazione, di ricordare che abbiamo il dovere di ragionare non solo di casi (che siano 5, 15 o 50), ma anche e soprattutto di sistema universitario.

Perché non si discute del sistema universitario nello stesso modo in cui si ragiona, per esempio, di sistema sanitario nazionale, di Forze Armate o di Forze dell'Ordine, ovvero, valutando il sistema nel suo complesso? Solo così è possibile dare un contesto a qualsiasi fenomeno, inclusi quelli di malcostume o di illeciti. Non per sminuire o sviare l'attenzione, ma per capire, a testa fredda e dati alla mano. Quante università vogliamo? Distribuite come? Di quale dimensione? Con quante risorse complessive? Con quali salari? Con quale livello di diritto allo studio e con quali tasse?

E quando volessimo ragionare di prestazioni, il sistema universitario italiano come si confronta coi sistemi francese, inglese, tedesco, ecc.? Uno dei modi più immediatamente comprensibili per valutare un sistema nazionale sanitario è guardare, per esempio, alla durata media della vita dei cittadini, nel caso dell'Italia molto alta (tra l'altro con una spesa complessiva decisamente contenuta). Perché non facciamo quasi mai lo stesso col sistema universitario?

Se lo facessimo, scopriremmo che l'Università italiana si colloca solidamente e sistematicamente tra le prime dieci al mondo per la ricerca; e se normalizzassimo questo risultato per le risorse investite (l'Italia è il penultimo paese OCSE per finanziamento pubblico all'Università), sarebbe addirittura la prima al mondo.

E i 50.000 ricercatori italiani all'estero (quasi sempre forzati ad emigrare a causa della spaventosa carenza di posti in patria), come li giustifichiamo se non con un sistema perfettamente in grado di formare persone ai massimi livelli?

Questi dati di sistema giustificano forse nepotismo o corruzione? Ovviamente no. Ma ci dicono qualcosa con cui tutte le persone intellettualmente oneste dovrebbero necessariamente fare i conti: che è materialmente impossibile che l'Università italiana sia - come a volte viene descritta - un'istituzione popolata da lazzaroni o da incapaci. Ci deve per forza essere una maggioranza di docenti e ricercatori che lavora onestamente e con onore, altrimenti le buone prestazioni del sistema sarebbero semplicemente impossibili da spiegare.

Il fatto che un sistema nazionale sia sicuramente dignitoso e forse anche qualcosa di più - come credo sia ragionevole sostenere a riguardo sia del sistema sanitario italiano, sia di quello universitario sia di quello delle Forze dell'Ordine - significa che allora va tutto bene, che possiamo tranquillamente ignorare scandali e altri problemi?

Ripeto: ovviamente no. E' doveroso contrastare con la massima energia sprechi, nepotismi, ecc., ovunque si presentino, e forse con un'energia ancora maggiore nel caso dell'Università, considerato l'alto ruolo educativo e civile che svolge l'istituzione (di cui faccio parte e che vorrei con tutte le mie forze fosse in grado di superare i suoi limiti).

Ma contemporaneamente dobbiamo tenere la testa fredda e valutare la situazione senza generalizzazioni indebite e senza scorciatoie demagogiche, avendo sempre a cura il futuro del sistema nel suo complesso. Da questo punto di vista chi oggi sostiene che gli scandali indeboliscono la richiesta di risorse per l'Università, prostrata da quasi dieci anni di tagli, non fa che assicurare una cosa: il definitivo scoraggiamento di chi va ogni giorno in aula, in laboratorio, in biblioteca.

Combattiamo senza pietà corruzione e nepotismi, ma assicuriamo contemporaneamente sia risorse adeguate, sia una ricerca di possibili soluzioni ai problemi che coinvolga, come non è mai stato fatto in passato, tutti i docenti e ricercatori, non solo i vertici accademici.

"Università futura" tour (fase 3)

A maggio sono continuate le presentazioni pubbliche di "Università futura".

Abbiamo iniziato il 2 maggio a Milano, prima alla Statale (con numerosi rappresentanti degli studenti) e a seguire al Politecnico, alla presenza del Rettore Ferruccio Resta.

Il 9 maggio è stato invece il momento dell'Università di Torino, per una discussione coi colleghi Ugo Pagallo, Massimo Durante, Peppino Ortoleva, Franca Roncarolo, Barbara Gagliardi e Anna Masera.

Il 15 maggio sono stato invece all'Università Federico II di Napoli, per una presentazione col Rettore Gaetano Manfredi (attuale presidente CRUI) e i colleghi Giorgio Ventre, Roberto Delle Donne e Guido Trombetti (ex Rettore e ex Presidente CRUI).

Infine presenterò "Università futura" al Salone del Libro di Torino giovedì 18 maggio alle ore 15:30, insieme all'amico e collega Massimo Durante.

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