"Elon Musk e l'attacco al cuore della democrazia"

Il Manifesto, 10 novembre 2024 (pp. 1 e 11)

PIATTAFORME Sommare potere economico e potere mediatico non può che distorcere, anche molto seriamente, il processo democratico.

Per quasi un decennio i social media sono stati capri espiatori così comodi che, se non fossero esistiti, qualcuno li avrebbe probabilmente inventati. Che cosa c’è, infatti, di più comodo del dare la colpa a Facebook, a Twitter o a TikTok per un voto andato storto, come per esempio quello del referendum sulla Brexit o l’elezione di Trump nel 2016? (Quando il voto, invece, va come si desidera, tutto in ordine sotto il cielo). Per completare l’operazione politica bastava poi aggiungere l’interferenza straniera (tipicamente russa): chi aveva perso non aveva comunque nulla di sostanziale da rimproverarsi, era tutta colpa dei social media e dei mestatori stranieri. Tutto, insomma, pur di non dedicarsi al difficile lavoro di comprendere la realtà sociale, e al pesante, ma essenziale, esercizio dell’autocritica.

Non che i social media, i motori di ricerca, e ora anche i servizi di «intelligenza artificiale» come ChatGPT non possano influenzare gli elettori: certo che li influenzano, anche se in genere in maniera meno diretta di quanto pensino alcuni (che peraltro in genere tendono a sminuire il ruolo, ancora molto importante, dei media tradizionali). E diamo anche per acquisito, per quanto contrario al principio di non interferenza nelle vicende interne altrui, che alcuni Stati stranieri cerchino di influenzare le vicende politiche, incluse quelle elettorali, di altri Paesi: dal momento che l’hanno fatto, e non di rado, non pochi Paesi occidentali (anche tra di loro), sarebbe strano che il gioco non funzionasse anche in senso inverso. In questi casi andrebbe contrastato con gli strumenti previsti dalla legge, e non usato con troppa leggerezza per giustificare i propri insuccessi politici.

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"Senza futuro. Il ruolo dell’Università"

Pubblico il mio contributo (leggermente rivisto) al rapporto Italia Decide 2023 "La conoscenza nel tempo della complessità. Educazione e formazione nelle democrazie del XXI secolo".

Versione PDF disponibile qui.



Senza futuro. Il ruolo dell’Università

Juan Carlos De Martin

“La vita è fatta di correnti che scorrono a velocità diverse: alcune […] mutano di giorno in giorno, altre di anno in anno, altre di secolo in secolo”
Fernand Braudel, “Storia, misura del mondo” (Il Mulino)


Ritornare a pensare ai tempi della storia

Chi pensa a qualunque istituzione, ma in particolare all’Università, dovrebbe riuscire a metterne a fuoco la tessitura storica. Con questa espressione intendo – nel solco di Fernand Braudel – la compresenza delle lunghezze d’onda di tre diversi tempi storici: le lunghezze d’onda corte degli eventi quotidiani, quelli che riempiono le circolari ministeriali e i media; le onde medie, legate ai cambiamenti che si misurano in anni e lustri, come quelli legati alle riforme legislative e ai cicli economici; e infine le onde lunghe, legate alle mutazioni profonde della storia, che hanno il respiro delle generazioni, se non dei secoli.

Chi vuole pensare seriamente a qualsiasi istituzione dovrebbe avere la sensibilità per questa sovrapposizione di tempi storici di diversa natura, sensibilità che oggi è particolarmente importante dal momento che viviamo in un tempo “senza storia”, come l’ha definito Adriano Prosperi.

È importante perché chi presta attenzione solo alle onde corte e forse un po’ alle medie, ovvero chi vive solo nel presente o poco più rischia di rimanere cognitivamente miope. Rischia di reagire – anche se magari con grande abilità – solo alle cose molto vicine, le uniche su cui tende a concentrare l’attenzione. Evita le buche, coglie i frutti, risponde a chi gli si para davanti, riesce a decidere di correre fino in fondo alla via o a saltare determinati ostacoli. Tuttavia, riuscendo solo sporadicamente ad alzare lo sguardo, segue perlopiù un sentiero di cui ha quasi dimenticato l’origine e che non sa più bene dove conduca. Sempre in metafora, non vede bene né le nubi all’orizzonte, né pensa a che cosa ci potrebbe essere oltre alla foresta, o al deserto, che sta attraversando in questo momento. Tutto è nel presente: si ottimizza una qualche funzione di opportunità su un intervallo di tempo che molto spesso si limita all’anno in corso o al massimo a pochi anni nel futuro. Tenere in considerazione intervalli più lunghi non interessa, proprio come ormai da molto tempo non interessa più alla politica e all’economia

È necessario contrastare questo predominio del presente tornando a pensare ai decenni e alle generazioni. Lo sguardo lungo deve tornare a influenzare come pensiamo a qualsiasi attività, a qualsiasi progetto, a qualsiasi istituzione. Solo tornando a pensare sistematicamente ai tempi medi e lunghi potremmo poi tornare ad agire in maniera compatibile col fatto che i viventi sono solo dei garanti di un mondo che hanno ricevuto da chi li ha preceduti e che dovranno trasmettere, possibilmente migliorato, a chi verrà dopo.

Pensare a ciò che è stato e a ciò che si è stati, sforzarsi di leggere la profondità storica del mondo in cui si vive, ovvero, provare a sintonizzarsi sulle onde medie e lunghe della storia, aiuta ad affiancare alla pur indispensabile destrezza con cui si deve affrontare il contingente, la capacità di capire da dove si viene e dove si vuole andare, consapevoli di un contesto di cui le onde lunghe della storia stanno impercettibilmente - ma inesorabilmente e incessantemente - cambiando i connotati.

Quanto abbiamo appena detto vale per tutte le istituzioni, ma vale in modo particolare per l’Università.

Innanzitutto, perché l’Università occidentale ha quasi mille anni di storia; è l’unica istituzione medievale, oltre alla Chiesa, arrivata fino ad oggi. Pensare seriamente all’Università, quindi, richiede la conoscenza delle innumerevoli metamorfosi che l’istituzione ha avuto nel corso dei secoli al mutare del contesto politico, economico, religioso e culturale.

In secondo luogo, perché potremmo dire che la missione dell’Università è per definizione quella di connettere le generazioni passate con le generazioni che devono ancora nascere - “to connect the dead to the unborn”, per usare le parole di Bruce Sterling. Preservare la conoscenza, curarla, interpretarla, insegnarla essendo consapevoli di essere stati preceduti da molte generazioni di studenti, professori, studiosi, bibliotecari, archivisti, tecnici, amministrativi, ecc. Generazioni precedenti a cui essere grati per il patrimonio che si è ricevuto da loro, patrimonio di cui si è ora garanti, con l’obiettivo di trasmetterlo migliorato alle generazioni future.

In terzo luogo, nessuna istituzione ha al suo interno altrettante competenze per poter dipanare la tessitura temporale dell’esistente. Non solo grazie agli storici, per quanto essenziali, ma in linea di principio grazie a tutte le discipline coltivate in Università, perché tutte sono necessarie per comprendere il passato, il presente e le potenzialità del futuro. Questa capacità di lettura della realtà comporta un dovere di mettere questa capacità al servizio della società, oltre che dell’Università stessa.


L’ Università nella Grande Accelerazione

Fatta questa premessa generale, concentriamoci ora su una specifica cesura storica che dovrebbe figurare in maniera prominente in qualsiasi riflessione sul futuro. Facciamo riferimento al 1945, ovvero alla fine della Seconda Guerra Mondiale. Naturalmente tutti sono consapevoli che quell’anno ha rappresentato una discontinuità di grande portata storica, ma al 1945 sono legati tre fenomeni che, sebbene siano indispensabili per pensare al futuro, sono ancora relativamente poco compresi e discussi.

"Il rischio nascosto negli oggetti sempre connessi"

Il Manifesto, 22 settembre 2024 (pp. 1 e 9)

I raccapriccianti atti di terrorismo avvenuti nei giorni scorsi in Libano via cercapersone e ricetrasmittenti sono una eclatante manifestazione di uno degli aspetti meno compresi della rivoluzione digitale. Relativamente poche persone, infatti, hanno messo a fuoco il fatto il mondo si sta computerizzando, processo che sta causando, oltre al resto, alterazioni profonde nei rapporti con l’ambiente in cui viviamo, oggetti inclusi.

La prima fase della computerizzazione del mondo è stata palese perché è stata semplicemente la fase della diffusione dei computer tradizionali, dai cosiddetti mainframe agli attuali desktop e notebook. Negli ultimi 20-30 anni, però, la miniaturizzazione dei componenti e il drastico calo dei costi (anche della connessione a Internet) ha avviato una seconda fase, meno visibile e soprattutto meno compresa, che sta portando a computerizzare un numero crescente di esseri umani, di spazi e di cose.

Gli esseri umani si stanno computerizzando – volontariamente, ma in larga parte senza essere pienamente consapevoli delle implicazioni – innanzitutto tramite l’adozione e l’uso molto intenso dello smartphone, ormai posseduto da oltre quattro miliardi di persone. Allo smartphone in anni recenti si stanno aggiungendo – in attesa di impianti sottopelle – orologi, braccialetti, occhiali e anelli “smart”, dove “smart” è sinonimo di “con computer a bordo dotato di sensori e connesso a Internet”. Le persone godono delle spesso notevoli funzionalità degli oggetti “smart”, che spesso portano con sé anche quando dormono, ma allo stesso tempo si prestano a una raccolta dati, anche estremamente sensibili, su di loro e sull’ambiente in cui si trovano, una raccolta dati assolutamente senza precedenti per vastità e capillarità, con conseguenze – per gli individui e per la società - ancora tutte da mettere a fuoco.

Per gli spazi, invece, basta pensare alla “smart city”, dove “smart” vuole innanzittutto dire la disseminazione di computer connessi a Internet negli spazi pubblici. Innanzitutto le migliaia di telecamere “smart” che stanno distopicamente presidiando le strade e le piazze delle nostre città (oltre che scuole, università, ospedali, uffici pubblici, ecc.), ma anche computer (dotati di sensori, ovvero, microfoni, telecamere, geolocalizzatori, ecc.) sui mezzi di trasporto (sia pubblici, sia quelli gestiti da privati come auto, scooter, biciclette e monopattini in condivisione), computer nei cassonetti dell’immondizia per controllare la raccolta differenziata, computer ai semafori e agli attraversamenti pedonali, e molto altro ancora. Una computerizzazione degli spazi che riguarda anche moltissimi spazi privati, non solo molti luoghi di lavoro, ma anche le stesse case delle persone, sempre più popolate di oggetti computerizzati che ascoltano e magari anche vedono, come, per esempio, gli assistenti personali tipo Alexa e le televisioni “smart”. In generale, sta diventando sempre più difficile passare del tempo in spazi non computerizzati, ovvero, spazi che non ci spiano, un cambiamento fondamentale del nostro rapporto con lo spazio.

E infine, appunto, gli oggetti. Tutti quelli che abbiamo già citato, a partire dagli smartphone, ma anche molti altri che in questi anni si sono progressivamente computerizzati: frigoriferi, lavatrici, termostati, lampade, bilance, forni, allarmi, televisori e molti altri ancora, tra cui le automobili e in generale i mezzi di trasporto, dai monopattini elettrici a elicotteri e aeroplani.

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"La frontiera politica dello smartphone"

Il Manifesto, 27 agosto 2024 (pp. 1 e 3)

L’arresto in Francia del fondatore di Telegram sta provocando forti reazioni, anche a livello politico. Come però già in casi precedenti, basti pensare alle controversie relative a Facebook o a TikTok, le polemiche contingenti rischiano di oscurare le questioni strutturali di fondo. Si tende a dimenticare, infatti, che le tecnologie della comunicazione sono sempre state cruciali strumenti di potere e quindi sono sempre state – e oggi, più che mai, sono – tecnologie intrinsecamente politiche. Chi comunica con chi, quando, con quale frequenza, di che cosa e in quali circostanze sono informazioni che il potere – nelle sue varie forme e articolazioni, sia pubbliche, sia private – ha sempre desiderato possedere.

Inoltre, il potere ha sempre desiderato controllare il più possibile il flusso di informazioni che in qualche modo potevano influenzarne l’azione o intaccarne la legittimità. Due pulsioni, quella di tutto conoscere e quella di tutto controllare, rese entrambe ancora più intense in periodi di guerra o, comunque, di tensioni politico-sociali.

A queste pulsioni del potere si è cercato di porre argine lottando per stabilire diritti che giustamente consideriamo come le fondamenta del vivere civile: innanzitutto, la libertà di espressione, e poi la libertà di stampa, la libertà di associazione, la segretezza della corrispondenza, la protezione dei dati personali, le norme che regolamentano in maniera rigorosa la sorveglianza degli individui, le norme che impongono trasparenza e responsabilità ai poteri (in primis pubblici, ma non solo).

Chi invoca la metafora della casa di vetro, ovvero, della perfetta trasparenza (delle persone, non certo del potere) perché «tanto i cittadini per bene non hanno nulla da nascondere», adotta – come amava ricordare Stefano Rodotà – un’ideologia nazista, ovvero, totalitaria. Non solo la società democratica, infatti, ma la stessa dignità umana, ha assoluto bisogno di riservatezza, di spazi protetti dall’intrusione da parte di poteri sia pubblici, sia privati. C’è in gioco non solo il libero sviluppo della personalità degli individui, ma anche la necessità di preservare spazi dove le persone possano confrontarsi tra loro, in libertà, per discutere di politica, per organizzarsi per difendere i propri diritti, ecc.

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Un anno fa

Un anno fa circa iniziava un periodo straordinario durante il quale in tanti abbiamo provato a delineare e a proporre pubblicamente una certa idea di Politecnico. Era - ed è - un'idea basata in parte sulla nostra analisi della situazione attuale, in parte su un modo di intendere l’istituzione Politecnico - e più in generale l’istituzione università - oggettivamente diverso, almeno per alcuni importanti aspetti, dal quello abbracciato da numerosi colleghe e colleghi.

Il nostro modo di intendere il Politecnico non era e non è particolarmente originale, anzi, è in linea con una tradizione di idee e di pratiche presente in Ateneo praticamente fin dalla sua fondazione. Idee e proposte che - a mio avviso - hanno sempre arricchito il Politecnico, temperandone certe sue tendenze a nostro avviso eccessive, se non addirittura controproducenti.

E' una tradizione che - in dialogo con chi la vede diversamente - intendiamo, per quanto ci è possibile, mantenere viva, anzi, rinnovare, con pensieri, idee, proposte e iniziative.

Costruiamo le alternative

Articolo pubblicato da "La Stampa", 18 aprile 2024, p. 24 in occasione dell'inaugurazione di Biennale Tecnologia 2024


L’immaginazione è morta. Può sembrare un’esagerazione, e in parte è anche vero, ma ogni tanto è utile, e forse addirittura necessario esagerare; basta, come diceva Günther Anders, che l’esagerazione vada nella direzione della verità.

L’esagerazione in questo caso è utile per provare a intaccare il sarcofago della rassegnazione che si forma pressoché inevitabilmente quando la nostra capacità di immaginare futuri realmente alternativi si atrofizza.

È quello che è successo in Occidente in questi ultimi decenni, caratterizzati dal dogma del “non c’è alternativa” (sottointeso, al presente). Che si tratti di un dogma è ormai chiaro a tutti, ma è un dogma che si è sempre presentato come il risultato di un’analisi tanto spietata quanto incontrovertibile della realtà. Analisi che prescrive medicine, quasi sempre amare, da imporre a cittadini che, se per caso obiettano, è solo perché sono ignoranti o egoisti, o tutte e due le cose insieme. Se le medicine producono – nonostante progressi tecnologici raccontati come imponenti – precarietà, disoccupazione, scuole e sanità sempre più fragili, povertà crescente, ecc., ci si dice dispiaciuti, ma tutte le medicine hanno controindicazioni, e quindi bisogna continuare a somministrarle, anzi, la dose, se possibile, va aumentata.

In questi ultimi tempi, poi, circola una versione del dogma persino peggiore della precedente, e non di poco, ovvero: «Fino a oggi siete stati dei privilegiati: da adesso in avanti non c’è alternativa al peggioramento». Peggioramento tipicamente dovuto a un futuro di guerre e di violenze dato per inevitabile (e a volte, sembrerebbe, quasi auspicato), o, in altra direzione, alle conseguenze apocalittiche dovute al riscaldamento del pianeta.

Di fronte a prospettive plumbee di questo genere, come non cedere, soprattutto se si è giovani, alla rassegnazione, o addirittura alla disperazione? E in effetti sono anni che gli studi e i sondaggi ci restituiscono un quadro molto preoccupante dello stato mentale e, più in generale, dello stato d’animo delle popolazione dei paesi occidentali. La depressione affligge milioni di persone, l’uso di psicofarmaci è diventato molto comune e, se interrogati in merito al futuro, la maggioranza dei cittadini europei e statunitensi risponde che negli anni a venire si aspetta di vivere peggio o, nelle migliori delle ipotesi, di restare nelle spesso tristi condizioni attuali. Non stupisce che in molti paesi i tassi di natalità siano da suicidio collettivo.

Così non è possibile continuare.

E il fattore da cui partire per provare a cambiare direzione è proprio l’immaginazione. Un fattore di per sé non sufficiente, si capisce, ma assolutamente necessario per dare linfa a un modo diverso di stare al mondo, un modo di vivere allenato a vedere nel mondo soprattutto delle possibilità.

L’umanità ha sempre immaginato, ovvero si è rappresentata mentalmente qualcosa che non esisteva, ma che, grazie all’azione umana, aveva il potenziale di esistere. Immaginare qualsiasi cosa: una selce scheggiata, un’organizzazione sociale, una app, un possibile esperimento scientifico, un pozzo, un’opera d’arte. Secondo alcuni l’immaginazione è la caratteristica principale che distingue la nostra specie da tutti gli altri essere viventi: che ciò sia vero o meno, è sempre stata l’immaginazione a spingerci a provare, a sperimentare, a trovare nuove vie, a non darci mai per vinti. È sempre stata l’immaginazione a nutrire la speranza, ovvero, a permetterci di guardare il futuro con la consapevolezza del possibile, di ciò che in questo momento non è, ma che potrebbe essere.

Tuttavia, al contrario di quanto è stato fatto in questi ultimi quarant’anni, l’immaginazione va non solo rispettata, ma anche attivamente incoraggiata e nutrita, nella società in generale e in particolare nelle scuole e nelle università. La comprensione rigorosa profonda del passato e dell’esistente coltivata nelle istituzioni del sapere, infatti, deve essere pensata non come fine a sé stessa, ma anche e soprattutto come terreno su cui far crescere rigogliosa la pianta dell’immaginazione.

Ecco perché l’edizione 2024 di Biennale Tecnologia, la manifestazione culturale del Politecnico di Torino, si intitola Utopie realiste. Abbiamo scelto la parola “utopie” per invitare a liberarci dal dogma del fintamente inevitabile per tornare finalmente a pensare, con audacia, futuri possibili. E poi a “utopie” abbiamo aggiunto “realiste” per far capire che non ci interessano i piani impossibili, le chimere, ma – in spirito politecnico – i futuri che poggiano sia su rigorose basi tecnico-scientifiche, sia su una solida conoscenza dell’umano.

È questo il tipo di immaginazione che praticheremo a Torino fino a domenica, grazie a più di 120 lezioni, dialoghi e discussioni con relatrici e relatori di tutto il mondo, a spettacoli teatrali, a mostre, a laboratori per i bambini, a programmi per le scuole, a presentazioni del personale di ricerca e docente del Politecnico, a visite nei laboratori dell’Ateneo.

Un grande palinsesto culturale e artistico che graviterà innanzitutto sulle due sedi principali del Politecnico, ovvero, il complesso di corso Duca degli Abruzzi e il Castello del Valentino, ma che includerà tutta la città, partendo dalle Officine grandi riparazioni (Ogr) per arrivare a piazza San Carlo (dove sarà possibile incontrare i team studenteschi del Politecnico) alle biblioteche civiche, alle Case di quartiere e alle decine di sedi dove avranno luogo gli incontri di Biennale Tecnologia Off.

Per concludere, l’immaginazione forse non è morta, ma di sicuro, come abbiamo detto, non sta molto bene. Tuttavia, possiamo farla tornare in salute e il primo passo è ricominciare a praticarla, tutti insieme. Con i piedi ben saldi per terra, ma leggeri, pronti a saltare. E con gli occhi spesso puntati alle stelle. È quello che proveremo a fare a Biennale Tecnologia. Vi aspettiamo.

Inaugurazione Biennale Tecnologia 2024

A seguire il testo del breve discorso che ho fatto durante la cerimonia di inaugurazione di Biennale Tecnologia 2024 (Aula Magna, Politecnico di Torino, 18 aprile 2024).

Benvenuti a Biennale Tecnologia 2024!

E’ la quarta volta che il Politecnico invita non solo la sua comunità, ma tutta la cittadinanza - di tutte le età, scuole incluse - per parlare di tecnologia e società in maniera rigorosa, ma accessibile. Lo faremo grazie a 160 incontri, con quasi 300 ospiti, a laboratori, spettacoli, visite guidate, mostre, proiezioni, e con la collaborazione di decine e decine di partner, che ci hanno aiutato non solo ad arricchire il programma, ma anche a portare Biennale in tutta la città (e oltre!).

Il nostro modo di pensare alla tecnologia è distintivo, come si capisce dal motto che accompagna Biennale Tecnologia fin dal 2019: “Tecnologia e/è umanità”.

Per noi di Biennale la tecnologia cura e ferisce, protegge e uccide, diverte e costringe, produce e distrugge, inquina e pulisce, risolve e complica, nutre e contamina: insomma, la tecnologia è umanità, con tutte le sue contraddizioni, aspirazioni e pulsioni.

Abbiamo quindi l’ambizione di pensare alla tecnologia in maniera ampia e plurale. Vogliamo provare a cogliere – senza nasconderci i limiti e le difficoltà dell’operazione – la totalità dei suoi effetti, vogliamo cercare di mettere a fuoco non solo le sue caratteristiche attuali, ma anche le sue potenzialità, e non solo quelle che promettono ritorni economici, ma anche quelle che potrebbero dare contributi importanti di altro tipo alla collettività e alla vita sul Pianeta.

Uno sforzo di comprensione e di immaginazione ampio che richiede certamente il contributo delle discipline tradizionalmente politecniche, ma che richiede anche altri due tipologie di contributi: quello delle scienze umane, sociali e delle arti, per realizzare un dialogo tra discipline non facile, ma assolutamente essenziale; e quello della passione – culturale, politica, etica. Solo col contributo di tutti i saperi e della passione è possibile andare al cuore dei problemi e trovare soluzioni che funzionino davvero.

E solo così è possibile pensare a delle UTOPIE REALISTE, ovvero, immaginare con coraggio, ma non per il mero piacere di immaginare: immaginare avendo come obiettivo possibili realizzazioni, progetti, azioni concrete.

Tra i tanti argomenti che tratteremo, due - oggi più che mai di attualità- mi stanno particolarmente a cuore.

Il primo tema è quello della Grande accelerazione. Con questa espressione si fa riferimento a un periodo di cambiamenti senza precedenti che hanno avuto luogo a causa della presenza umana sul pianeta dalla fine della Seconda Guerra Mondiale a oggi. In poco più di 70 anni:
  • La popolazione mondiale è più che triplicata, passando da poco più di 2 a oltre 8 miliardi di persone;
  • il numero di veicoli a motore è aumentato di 35 volte, da 40 milioni a 1,4 miliardi;
  • gli abitanti delle città sono quasi sestuplicati, passando da circa 700 milioni a più di quattro miliardi;
  • i tre quarti dell’anidride carbonica introdotta nell’atmosfera da attività umane da quando esiste Homo sapiens è stata introdotta dopo il 1945 (e più della metà negli ultimi trent’anni!).
La Grande Accelerazione continua inarrestabile anche oggi nonostante conseguenze sempre più evidenti, a partire dal riscaldamento climatico.

Il secondo argomento è quello che potremmo chiamare il lato oscuro della tecnologia, ovvero, quello legato, da una parte, all’uso poco democratico della tecnologia e, dall’altra, al mondo della guerra. Sono aspetti a cui Biennale Tecnologia, nella sua storia, inclusa questa edizione, ha sempre prestato specifica attenzione.

Relativamente alla guerra, con quanto sta avvenendo in particolare in Ucraina e a Gaza, l’argomento è di angosciante, bruciante attualità. Nella nostra manifestazione abbiamo trattato il tema della guerra e della pace, anche con l’edizione 2023 di “Tempi difficili”, col realismo, la sobrietà e la pluralità di punti di vista che da sempre contraddistinguono Biennale.

Ma anche questo tema - come tutti gli altri - l’abbiamo trattato, e lo tratteremo anche quest’anno, con la consapevolezza che il futuro non è scritto e che quindi, ragionando insieme, è possibile mettere a fuoco e costruire futuri migliori, in particolare, futuri di pace. La guerra non è inevitabile, come molti, purtroppo, sembrano dare per scontato. Al contrario: la pace è un'utopia non solo realista, ma anche necessaria.

Grazie.

Buona Biennale!

"Contro lo smartphone - Per una tecnologia più democratica"



Dal 23 settembre 2024 il PDF libro è anche disponibile online con licenza Creative Commons qui.


Il 22 settembre 2023 è uscito il mio secondo libro dal titolo: "Contro lo smartphone - Per una tecnologia più democratica" (ADD Editore), con prefazione di Gustavo Zagrebelsky.
Lo usiamo tutti, nel 2021 ne sono stati venduti circa un miliardo e mezzo. Se in questi anni c’è stata una rivoluzione tecnologica, lo smartphone ne è il simbolo e in questo libro Juan Carlos De Martin affronta la questione da tutti i punti di vista, partendo da un dato di cui pochi colgono la straordinarietà: è necessario. Come è fatto, chi ne gestisce sistema operativo, store e dati, quali sono le conseguenze sociali che lo smartphone ha sul mondo. Ma un modo migliore per usare questa tecnologia c’è: De Martin lo propone nel manifesto finale, dove immagina un mondo in cui l’uomo sia padrone della macchina e possa servirsene con fiducia. Un libro che ci invita a riflettere su una mutazione epocale passata quasi inosservata, con la convinzione che un altro mondo è possibile.

«Non era mai successo nella storia dell’umanità che una macchina diventasse necessaria nella vita quotidiana di miliardi di persone. È arrivato il momento di chiederci cosa stiamo facendo.»

Per conoscere i prossimi incontri e per una rassegna stampa aggiornata vedere il sito dell'editore.

INCONTRI PUBBLICI (elenco non aggiornato)

  • 23 settembre 2023, ore 12:30, Piacenza, Festival del pensare contemporaneo, "Contro lo smartphone", con Stefano Moroni.
  • 28 settembre 2023, ore 18:00, Torino, Libreria Bodoni, via Carlo Alberto 41, con Gustavo Zagrebelsky e Alessandra Quarta.
  • 26 ottobre 2023, ore 18:00, Torino, Circolo dei Lettori, "Contro lo smartphone", con Bruno Ruffilli.
  • 29 ottobre 2023, ore 15:00, Genova, Palazzo Ducale, Festival della Scienza, "Contro lo smartphone - Per una tecnologia più democratica".
  • 9 novembre 2023, ore 18:00, Milano, Libreria Hoepli, "Contro lo smartphone", con Andrea Daniele Signorelli.
  • 10 novembre 2023, ore 18:30, Torino, Fondazione Amendola, via Tollegno 52, con Rosita Rijtano e Fabio Malagnino.
  • 1 dicembre 2023, Firenze, Salone dei Cinquecento di Palazzo Vecchio, Wired Next Fest.
  • 9 dicembre 2023, Roma, "Più liberi più libri", La Nuvola.

INTERVISTE, ARTICOLI, RECENSIONI, RADIO E TV (elenco non aggiornato)



Candidato a Rettore del Politecnico 2024-2030

Oggi 30 giugno 2023 mi sono dimesso da delegato del Rettore per la cultura e la comunicazione e ho annunciato alle colleghe e ai colleghi del Politecnico che intendo candidarmi a Rettore per il mandato 2024-2030. Sul sito Politecnico Futuro è possibile trovare la mia lettera aperta, il mio invito a contribuire alla elaborazione del programma, il mio libro "Università futura - tra democrazia e bit" e altro ancora. Il motto della mia candidatura è: Mente, cuore, mani (sul sito spiego perché). Testata del sito elettorale di J.C. De Martin

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